Thursday, October 13, 2005

Colpire a distanza: amenità varie


La caccia con l’arco è una forma di venazione arcaica che si sta diffondendo un po’ dappertutto. Non certo una pratica semplice, al contrario richiede molta specializzazione. Ma quale stimolo realmente esercita sull’uomo “moderno”? Un percorso verso il romanticismo del passato ideografico della nostra cultura venatoria o qualcosa di molto più profondo, verso le radici archetipiche della nostra evoluzione?

L’America conta milioni di cacciatori con l’arco, con regolamentazioni specifiche e calendari che aprono anticipatamente rispetto all’arma da fuoco. È un paese con una cultura venatoria diversa dal nostro, sotto molti punti di vista, come pure gli habitat e la fauna, che risultano molto più prossimi a quella filosofia della wilderness che si legge sui libri di Conrad e Thoreau. Solo centocinquant’anni anni fa nelle praterie si cacciava il bisonte con l’arco, e cento anni fa nelle foreste dell’ovest i nativi cacciavano ancora il cervo coda bianca, appostandosi a venti metri con l’arco e le frecce nascosti dalla vegetazione. I trapper che esploravano la frontiera avevano molto più in comune con gli indiani che non con gli abitanti della vecchia Europa, da dove inizialmente provenivano, grazie ad un meccanismo di integrazione forzata, mimesi e adattamento all’immanenza dell’ambiente selvaggio nel quale si muovevano. È naturale quindi che questo retaggio tutto sommato recente abbia fatto presa, con la pressione romantica e funzionale di un mondo naturale in scala 3 a 1 rispetto al vecchio continente. Negli anni ’30 già gli stati americani legalizzavano la caccia con l’arco.
Dalle nostre parti si parla una lingua venatoria frutto di una cultura differente e composita, in parte antica fatta di tradizioni in cui la caccia rappresenta dall’antichità un privilegio dei ricchi e dei nobili, in parte moderna evolutasi per necessità dopo i depauperamenti bellici, e in parte contemporanea viziata dal compromesso politico economico dell’equazione caccia-sport-business. Dagli anni ottanta ha fatto capolino anche una visione alternativa, da un lato grazie al progressivo dissolversi dell’ambiente contadino pastorale e al conseguente mutarsi dell’ecosistema, che ha permesso alla fauna selvatica di riappropriarsi di alcuni dei suoi spazi; dall’altro grazie al dilagare di una certa comunicazione: i sogni adolescenziali di quella generazione cresciuta e alimentata da simboli, film, libri e riviste d’avventura outdoor d’oltreoceano hanno fatto germogliare la voglia concreta di “selvaggio nostrano”, tra le cui forme metaforiche ben si identificano l’arco e le frecce in un contesto di caccia pseudo-arcaica.
Dal ‘76 la legge italiana ha compreso l’arco tra i mezzi consentiti, senza, in verità, delinearne i dettagli. Regioni e Province poi restringono o addirittura bandiscono questa possibilità, e in generale tanto è ancora da fare, ma oggi molto giovani cacciatori si rivolgono idealmente all’arco e le frecce, come pure molti appassionati d’arco, spinti da una curiosità (a volte profonda pulsione) alla ricerca di risposte articolate sul rapporto con la Natura nei confronti della propria natura, verso i misteriosi conflitti tra il proprio istinto e la ragione: risposte difficili, forse impossibili, ma molto intriganti. Domande veramente molto antiche.
L’arco e le frecce in caccia possono essere viste come una metafora di una delle transizioni culturali più devastanti della nostra evoluzione. Mi riferisco alla “rivoluzione neolitica” in cui l’uomo da cacciatore-raccoglitore diventa pastore-agricoltore. In quel lasso di tempo annebbiato dai millenni, l’arco si afferma come sistema rivoluzionario del “colpire a distanza”, il mezzo più perfezionato e selettivo per ottimizzare la caccia da un punto di vista strumentale. Lascia alle sue spalle la lancia, il propulsore (altra obnubilata “innovazione” geniale) e le altre forme venatorie che necessitano un più grande dispendio energetico.
Ortega afferma che la maggiore efficienza delle armi non ha nulla a che vedere con la Caccia[1]; ed è sicuramente così da un punto di vista filosofico (odierno), ma nel paleolitico superiore, a fronte di una glaciazione devastante al suo culmine, la necessità adattativa di un sistema di prelievo selettivo ed efficace diventa veramente molto forte, e viene da lontanissimo nel tempo. Il fatto che in più parti del mondo preistorico, intorno a ventimila anni fa (testimoni le innumerevoli punte di freccia ritrovate) sia ormai accertata la nascita del nuovo sistema balistico, ci fornisce uno spunto stimolante per addentrarci in questa metafora. Per comprenderla meglio, ci viene utile la paleoantropologia[2].

Cacciare con l’arco simboleggia egregiamente l’atto di colpire a distanza che probabilmente è, nello sviluppo della coscienza umana, l’attività caratterizzante più forte. Cercherò di spiegare perché.
La capacità di offesa attiva è decisamente grande fin dalle prime fasi dell'ominazione, e la nostra specie è l'unica a colpire efficacemente a distanza assumendo così le caratteristiche del predatore per eccellenza (il super-predatore o meglio predatore globale). Limitare e evitare il contatto fisico con la minaccia o la preda è una modifica innovativa del comportamento di tipo sequenziale e nello stesso tempo psichica dirompente, che influisce direttamente nella selezione naturale. Oltre a questa acquisita capacità progettuale di azioni sequenziali, si sviluppa la progettualità dell'inganno, riferita al controllo dell'emotività durante le varie fasi dell'azione (ricerca, appostamento, lancio, ferimento, inseguimento, recupero e consumo della carcassa). Tutto questo insieme di neo-attitudini, peri nostri antenati, possono essere sintetizzate nel concetto di strategia dell’ attesa. Inganno è predare ciò che si vede a distanza, lanciando qualcosa (sasso, bifacciali, giavellotto, freccia, proiettile, ecc.)[3].
Strategia dell'attesa e complessità dell'inganno sono in stretta relazione con l'elaborazione e l'applicazione deliberata di un progetto in continua evoluzione; questo si traduce nel rispetto di una sequenza di azioni che hanno come conseguenza il ritardo della possibilità di nutrirsi rapidamente. In sintesi: il silenzio, il movimento, la direzione del vento e la simulazione allo scopo di consentire l'avvicinamento, il puntamento, il lancio, il ferimento, l'inseguimento, la cattura, il possesso, il trattamento, l'asportazione, il consumo della preda.
L'incapacità di sostenere un confronto fisico, soprattutto con i carnivori, ha comportato, per i nostri progenitori, anche lo sviluppo di strategie per portare al sicuro rapidamente la carcassa animale o di parti di essa.
Questa sequenza temporale descritta favorisce la percezione visiva e sensoriale di immagini ed eventi in un ordine cronologico e spaziale, stimolando lo sviluppo cognitivo della mente umana ed in particolare l'elaborazione di un linguaggio articolato quale conseguenza dell'esperienza, dell'assimilazione e dell'adattamento. La sequenza visiva diviene ricordo, simbolo e l’evento viene raccontato; la sequenza temporale delle azioni non è mai ripetitiva ed uguale, al contrario si modifica continuamente e incessantemente, favorendo così una esperienza di continuo testata e affinata e comunque portata allo sviluppo di strategie differenti a seconda delle circostanze, affinando il ricordo, la memoria e allo stesso tempo la creatività. È l’esaltazione del processo definito da Bateson[4] “calibrazione”, ed è in questo contesto che probabilmente le modalità di recupero degli alimenti possono aver avuto un ruolo importante, in questo meccanismo evolutivo, non indifferenti alle strategie di approvvigionamento.

Per l'uomo si tratta spesso di una lunga attesa, dall'inizio alla fine dell'azione di predazione, fatta di speranze, ansie, emotività forti sempre comunque violentemente represse, per non rischiare di attrarre l'attenzione sull'inganno già predisposto o perpetrato, per raggiungere l'obiettivo prefissato rappresentato dalla cattura della preda. Questo comportamento può essere articolato in cinque fasi: La prima fase è rappresentata dall'avvicinamento furtivo alla preda: massima attenzione, mimetismo anche per quanto riguarda gli odori, lentezza e circospezione nei movimenti, annullamento di ogni rumore. Questa fase è sostanzialmente uguale per tutti i predatori, compreso l'uomo che vuole scagliare il suo proiettile primitivo. La seconda fase è quella attiva, riguardante l'eventuale ferimento della preda: L'uomo, contrariamente a tutti gli altri predatori, colpisce a distanza. Una freccia che vola surroga il balzo del leopardo. E' quello che abbiamo definito col termine di inganno. In questa fase la differenza rispetto ai carnivori è notevolissima, soprattutto sul piano comportamentale e psichico. Il carnivoro attacca con la massima forza e violenza sicuro della velocità, degli artigli e dei canini; scarica la sua adrenalina nella possanza muscolare, in un'azione dirompente.
L'uomo, invece, in silenzio e al massimo del suo annullamento fisico, ma con grande velocità, colpisce la preda con qualcosa che parte dalle sue mani, talvolta non accorgendosi neppure ciò che sta avvenendo. Egli resta immobile e non può esultare per il bersaglio centrato; può solo continuare a pensare, osservare se ciò che ha appena compiuto ha raggiunto il suo scopo, può immaginare di cambiarlo in futuro e modificarlo in futuro, ma è obbligato a contenere anche l'eventuale gioia di aver colpito. La preda non scappare lontano, non deve diventare bersaglio facile di altri carnivori; non può essere perduta. Bisogna aspettare ancora; aspettare che l'oggetto scagliato faccia il suo lavoro. E’ questo un atteggiamento noto presso i popoli cacciatori e raccoglitori: dopo il ferimento dell'animale è importante recuperarlo quanto prima, possibilmente il più vicino possibile. Nella savana tutti vedono tutto, soprattutto un animale in difficoltà diventa facile preda degli altri carnivori e si potrebbe così compromettere il lavoro fatto. Si deve recuperare, in rapidità, ed è sempre un problema trasportare. Meglio tagliare velocemente, depezzare prima che arrivino altri predatori attirati dal volo degli avvoltoi. E’ un lavoro da chirurghi, fatto ella preistoria con schegge taglienti. A questo punto si torna al campo base, dove finalmente si esce dal mimetismo e dal silenzio assoluto. L'aria dell'inganno sfuma e si fa spazio finalmente l'estemporaneità. Il tutto diventa comune e la progettualità più o meno complessa (con le sue fasi, i suoi oggetti, i suoi ritmi) diventa simbolo, sia in senso funzionale che sociale, possibilmente da imitare e quindi da riprodurre, anche con l'elaborazione di varianti.

Imitare e riprodurre sono le conseguenze di una celebrazione vera e propria dell’atto venatorio, che avviene nella propria collettività. Celebrazione che nei primordi significa probabilmente una elevazione del cacciatore ad un rango elevato, con quel che ne poteva conseguire. Non per il reale apporto di proteine nobili o di grassi che il cacciatore fornisce (è assodato come la carne ottenuta dalla venazione abbia un rapporto proteine edibili/rischio e consumo elevatissimo); altre facili proteine e grassi possono essere frutto di un sistema di raccolta di alta specializzazione (animaletti che strisciano e scodinzolano, più facili e meno pericolosi da catturare), ma la selvaggina cacciata è preziosa per ciò che rappresenta. Tra le scimmie antropomorfe la caccia è meccanismo sociale, ed è provato come la preda possa rappresentare, per il maschio, oggetto di scambio di attenzioni con le femmine.
L’attività venatoria richiede che i cacciatori comunichino tra loro e agiscano in modo coordinato, cosa che ha conferito un notevole valore adattativo all’intelligenza e alla capacità di comunicare per cacciare ed inseguire prede potenzialmente pericolose. In più, sulla base di recenti studi di neurofisiologia[5], le aree preposte all’acquisizione dati per il calcolo della traiettoria e alla pre-programmazione del movimento del “lancio” (in qualsiasi sua espressione biomeccanica nel proiettare qualcosa verso il bersaglio) sono identificabili con le ben note aree del Broca e Wernicke, che guardacaso, sono le stesse coinvolte nel processo del linguaggio articolato. Come l’orecchio ascolta e il cervello predispone una risposta, la bocca e le labbra producono i fonemi. Nel lancio, la visione stereoscopica percepisce il bersaglio, il cervello ne apprezza distanza, velocità, compie l’elaborazione automatica e avviene simultaneamente la risposta con il lancio, senza oggettiva coscienza dell’infinita concatenazione di azioni biomeccaniche che devono compiersi. Di riflesso, i migliori cacciatori che “colpiscono a distanza” diventano quindi “riproduttori” più ambiti, e conseguentemente propagatori di geni vincenti anche sul fronte della comunicazione.

Viene spontaneo, quindi, rinnovare nell’atto di venazione primordiale la sua importanza simbolica, che trascende l’aspetto quantitativo della risorsa elementare, sfumando nell’atto in sé che vede il cacciatore come elemento di spicco della sua collettività, in cui il suo atto partecipa all’eternazione del mistero della Naturalità perduta con la sopravvenuta autocoscienza.

L’arco e le frecce testimoniano una estrema evoluzione tecnologica: strumenti per colpire a distanza in questa strategia dell’inganno e dell’attesa, perfezionati e geniali ma ancora radicalmente collegati con il “lancio” primordiale. Dalla rivoluzione neolitica (che dalle nostre parti ha fatto la sua comparsa ottomila anni fa) il cacciatore perde gradatamente il suo ruolo di leader del Clan, in veste di procacciatore di carne selvatica, in un mutamento che influenza profondamente l’economia generale delle società: inizia la coltivazione del terreno e poco alla volta, l’addomesticazione degli animali prima selvatici e quindi la pastorizia. Soprattutto finisce il nomadismo e nasce la proprietà, la difesa del suolo “privato”, accanita (lo testimoniano i ritrovamenti di scheletri umani con chiari segni di violenza, pressoché assenti nelle società cacciatrici) e il cacciatore, per via della sua abilità con l’arco, con facilità diventa guerriero. Mantiene comunque il suo mestiere pur diminuendo la reale necessità (lo testimoniano i ritrovamenti della paleofauna dell’età del Bronzo e di quella del Ferro, dove le frecce continuano a lasciare tracce. Nell’Età Classica e nel Medioevo la Caccia assume in occidente altre valenze, che paradossalmente riaffermano la componente simbolica del cacciatore-leader con i suoi privilegi, anche se con altre vesti culturali a cui corrispondono modi e tecniche diversificate. La caccia con l’arco comunque permane e si sviluppa “socialmente”, soprattutto in oriente.
Cacciare con l’arco oggi è quindi un modo calarsi nei panni del nostro progenitore, metafora in bilico tra la cultura antica e quella moderna. Da un punto di vista prettamente funzionale, l’arma in sé ha delle prerogative tali da obbligare ad una disciplina assolutamente antiedonistica, nel senso che la qualità del processo la si persegue attraverso una de-strutturazione totale del modello utilitaristico (o peggio, consumistico) caro oggi al vivere contemporaneo, e senza mezzi intermediari non naturali. Cacciare significa comunque sacrificio, più alto è, maggiore è la forza del suo messaggio. Certo è che oggi le “contaminazioni” del consumo hanno fatto perdere di peso a certi concetti, anche e purtroppo intorno al mondo venatorio.
Il cacciatore preistorico probabilmente cacciava anche per il piacere di farlo, ma soprattutto cacciava per risolvere il suo dramma: colmare il distacco tra essere dotato di un raziocinio in evidente evoluzione e le manifestazioni di natura intorno a lui, rendendo la sua caccia un Rito di celebrazione, una sorta di ponte tra il suo perduto ruolo animale e il l'incipiente status di essere "intelligente".
La Caccia moderna, rispetto al suo modello ancestrale, conserva il suo background in questo, e la caccia con l’arco ne immortala gli attributi più evidenti. La necessità dell’avvicinamento estremo e la criticità del tiro, unitamente alla difficoltà di costruire e mantenere in efficienza le proprie armi (e il proprio fisico) precipita il problema alla radice.
Chi lo ha provato sa che a dieci metri un cinghiale può essere ingannato con una buona tecnica nei sensi (vista, udito, olfatto) ma se l’ingombrante volitività dell’uccidere del cacciatore è forte ed incontrollata, non c’è verso di farlo. Anticamente i cacciatori possedevano questa qualità, e i guerrieri ben sapevano di queste percezioni, o istinti, e si addestravano nel percepirli (nella difesa) o nel mascherarli (nell’attacco). Relegare l’ego in un cantuccio, e la razionalità meccanicistica a casa, cercando di fluire negli eventi in modo "naturale" ed essenziale, Animale, pare sia l’unica e difficilissima ricetta. Chi meglio di un animale governato dal solo istinto può applicare questa regola? Il selvatico questi istinti li conserva, l’uomo vorrebbe riappropriarsene. Ecco quel motivo in più che fa la differenza nella scelta dell’arma, differenza sostanziale (da cento metri a dieci) e che più facilmente svela un capitolo difficile e stimolante, per il quale il carniere ricco, od il trofeo, soccombono spesso di importanza.

Vittorio Brizzi

[1] Ortega Y Gasset J., 1986, Meditazioni sulla felicità, SugarCo ed.
[2] Sintesi da comunicazioni personali dell’autore con Carlo Peretto, Università di Ferrara, 1999
[3] Ovviamente Inganno è anche predare ciò che non si vede con l'ausilio di trappole naturali o artificiali che si ispezionano, ad esempio, durante la giornata; inganno è anche la capacità di sottrarre o approfittare della preda di altri carnivori con azioni deliberatamente attive e razionali; inganno è anche modificare, nell'atto di percezione cosciente di sé stessi e degli altri, i processi di comprensione e i rapporti sociali normalmente costituiti; inganno è l'elaborazione simbolica (materiale, sociale e spirituale) in quando frutto della nostra mente e quindi del tutto soggettiva.
[4] Gregory Bateson, 1984, Mente e Natura, Boringhieri, pp.251 -260
[5] Cfr. William H. Calvin, 1991, The ascent of Mind, Backprint.com, Lincoln NE

1 Comments:

Blogger Unknown said...

Is there any way to get this article translated to English?

Thank you.

Carol Potenza
New Mexico, USA

6:32 AM  

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