Thursday, October 13, 2005

L’Arciere Mediterraneo

Le pagine di questo blog vogliono rivolgersi a tutti coloro che “sentono” l’arcieria in un modo diverso. O meglio, si sforzano di sintetizzare in modo semplice e concreto da un punto di vista filosofico, ma nello stesso tempo articolato in un graduale percorso esplorativo, un sistema di apprendimento del tiro con l’arco, e volutamente in una forma abbastanza provocatoria, invitano a metterlo in pratica.
L’Arciere mediterraneo vuole essere una vera e propria proposta di “formazione”, basata su documentazioni dell’Oriente e che indubbiamente hanno influenzato la nostra indocumentabile (o quasi) tradizione arcieristica mediterranea, in cui si tracciano linee guida ispirate ad una scienza antica estremamente efficace e pragmatica. In sintesi, come meglio vi apparirà leggendo e seguendo questa rubrica, vi troverete a contatto con esempi della didattica antica talmente “concreti”, familiari e costruttivi, che probabilmente vi domanderete come mai solo ora è emersa questa idea.

Noi ce lo siamo già chiesto. In realtà sono anni che si discute di questa possibilità: nasce inizialmente come diletto accademico, poi come sogno applicativo, dopo ancora diventa progetto e ambizioso desiderio di realizzarlo. E’ stata intrapresa un’operazione monumentale di decifrazione (qui non si può parlare solo di traduzione) di antichi trattati del medio oriente che si rivolgono ai docenti delle scuole di tiro (eh si…) agli allievi arcieri, agli ufficiali e strateghi, insomma all’utenza specializzata che, tramite la parola scritta, pone le basi di una “scuola di tiro”. Il tutto spalmato in diversi secoli e Culture, ma con elementi comuni e fili conduttori paralleli, ben tesi e vibranti. Inutile dire che studiando e discutendo i modelli didattici proposti da questi Maestri, stupisce la modernità (!) e la concreta applicabilità del metodo, che emerge dalla straordinaria cultura (psicologica, anatomica, medica, fisica, matematica, pedagogica e didattica) di cui sono portatori. Un meritato elogio alla Cultura del prossimo Oriente, mai come oggi fraintesa, una Cultura propria di un epoca in cui in occidente…non si andava così per il sottile.

Il lavoro di sintesi necessario, molto impegnativo, ci fornisce spunti diretti per una Scuola di arcieria assolutamente profonda, coerente ed interessante. Questi trattati (in occidente bisognerà attendere forse Ascham, ma noi che tipo di occidentali…siamo?) che spaziano dall’anno mille ai primi del sedicesimo secolo, espongono i fondamentali, le regole, le prassi, gli allenamenti, le condotte morali, specializzazioni, fino ad un esoterismo sottile ma insinuante, in cui i valori della dottrina vengono dichiarati parte integrante dell’allenamento e dell’apprendimento dell’arte.
Quale è la figura di arciere che ne emerge? Un uomo in grado di fronteggiare il nemico in svariate situazioni e capace di dominare la paura, “forte” e efficace, a fronte di un duro ma strutturato insegnamento “per gradi”. Un guerriero di spicco, con un ruolo specializzato, quotato e apprezzato diversamente dall’arciere medievale mitteleuropeo che, pur efficace e necessario nell’economia dei fatti bellici, sfuma nella letteratura come protagonista a fronte del “cavaliere” a cui tutto è dovuto.
Il modello di insegnamento, quindi, a fronte di un lavoro di ammodernamento (in termini comunicativi) necessario, diventa un sistema integrato basato sull’uomo e sul suo “miglioramento”, mai come oggi, riteniamo, necessario.

Lasciamo perdere preconcetti ideologici, ma basiamoci sui fatti: l’arco nasce come arma, e come tale ha delle prerogative che lo rendono “rivoluzionario” rispetto alle altre armi. Colpire a distanza, ovvio, è il suo punto forte. Ma farlo con potenza, precisione e abilità (che sarebbe la totale padronanza, leggi comunione del bersaglio con il proprio corpo oppure l’arco e la freccia che diventano parte della propria corporeità) diventano la missione da compiere nel suo insieme. Oggi, inutile dirlo, solo la precisione (e la parabola piatta) è il fine, che per essere raggiunto ha bisogno di droghe e illusioni tecnologiche.
I trattati insegnano varie scuole, ma nessuna si discosta dall’obiettivo sintetizzato dagli Arkan (i Pilastri) che sono le qualità base. Nessuna deve essere dimenticata, tutte coltivate con perseveranza. Il quadro di stupenda arcieristica naturalezza che emerge dalle righe di questi testi, quando descrive l’arciere che supera difficoltà e cimenti “non ponendosi” altro problema della fluidità nelle esecuzioni dei tiri e sulla qualità degli impatti, mettendo in pratica esercizi divertentissimi (!) comuni a certi giochetti che – sfido tutti a negarlo – abbiamo sicuramente compiuto in passato tra amici o nei roving di famiglia (magari poi vergognandocene, quasi la sindrome da Peter Pan fosse una fase ricorsiva della nostra malattia da guarire a suon di gare ufficiali e regolamenti “seri”) qui diventano la regola.

Non si tratta di “arcieria storica” come oggi la si intende né re-enactement ludico – culturale. Non si tratta di una “alternativa” sportiva o di una nuova disciplina marziale tout court. Non è neanche un approccio accademico. È tutte queste cose insieme, per un certo verso, ma anche qualcosa di talmente vecchio (antico) che brilla per la sua modernità ontologica. Sembra paradossale, ma oggi tra tendenze, mode e atteggiamenti di parte, si fa un “gran danzare intorno” a concetti antichi (il tirare d’arco è un principe tra questi concetti) ma ci si limita, sovente, a viverli tramite aspetti marginali, spettacolari. Nella migliore delle ipotesi si fa un nuovo gioco, ma spesso con esso si perdono i collegamenti con la tradizione e con le radici.
Volendo spiegare meglio, il nostro sport è tale da poco più di due secoli, o meglio è celebrato come tale solo da quando il fine di “colpire un bersaglio” ha smesso di essere un’esigenza contingente, di vita e morte, verso i propri simili o verso la selvaggina. Uno sport che, evolvendosi, ha perso il controllo sul soggetto ed il processo (l’individuo e sul suo miglioramento) per spostarsi verso l’oggetto (l’attrezzo) come elemento principale, enfatizzando una performance autoreferenziale che non ha più nulla che vedere con la base motivazionale che ha spinto l’uomo ad inventarsi un sistema efficiente per colpire a distanza.

Eppure dovremmo mostrargli più rispetto, a quell’arciere. Già la sua nascita rappresenta un elemento simbolico in sé, intorno a quella non ben precisa finestra temporale che vede l’abbandono delle pratiche di sussistenza basate sulla caccia-e-raccolta per quelle di allevamento e sfruttamento intensivo del suolo. Ha i suoi albori nel paleolitico superiore come raffinatissimo ed innovativo processo di venazione per diventare via via perfezionato sistema per combattere i propri simili, a cavallo della rivoluzione neolitica che rappresenta la prima sconvolgente e radicale trasformazione della società degli umani. L’uomo perde, da quel momento e sempre in maggiore misura, il contatto con la sua radice selvaggia, naturale. La freccia ne è protagonista e testimone, strumento di accompagnamento e di accelerazione. Lungi dall’essere la sede adatta per discuterne il ruolo (in questa “rivoluzione”) ma elemento su cui meditare: l’arco e la freccia come fossero l’ultima reminescenza di una società diversa, forse scomoda, ma sicuramente più integrata con le basi originarie.
Elemento fortemente simbolico, quindi, senza nulla togliere al fatto che quindicimila anni (come minimo) sono ben di più potenti di qualche secolo, anche se le decine d’anni recenti ne hanno viste, veramente, di cotte e di crude.

Che significa “Arcieria Mediterranea”?

Sebbene l’arco sia stato patrimonio di tutte le culture e di tutti i gruppi umani dal paleolitico in avanti in ogni angolo del globo, le sue sedimentazioni storiche e le sue tracce più consistenti le ritroviamo nelle grandi civiltà del Vicino, Medio ed Estremo Oriente (Bizantini, Persiani,Turchi, Cinesi, Indù; ma ancor prima Egizi, Assiri, Sciti ecc.). Queste raffinate civiltà - accomunate dall’uso dell’arco di tipo composito (corno, legno tendine), che costituiva un’arma micidiale - produssero nel corso dei secoli di quello che noi chiamiamo Medio Evo, una vasta letteratura sulle tecniche di uso e addestramento al tiro con l’arco,
L’unificazione del Medio Oriente sotto le bandiere dell’Islam e il conseguente prevalere della lingua araba quale momento unificatore dei popoli conquistati, favorì il fiorire di una vasta letteratura di tipo tecnico-scientifico, che come in molti altri campi del sapere umano, interessò anche le arti militari e in particolare in tiro con l’arco. Inoltre, gli Arabi seppero raccogliere e trasformare in teoria scritta anche le secolari esperienze pratiche, ma non codificate, dei popoli delle steppe asiatiche, soprattutto per quanto concernente il tiro da cavallo.
Furono così tradotti o redatti in arabo numerosi trattati riguardanti le tecniche di tiro e di addestramento, trattati rivolti soprattutto agli arcieri degli eserciti arabi (in particolare i Mamelucchi), i quali, a differenza degli arcieri occidentali dello stesso periodo, erano alfabetizzati e, quindi, in grado di leggere e studiare tali trattati. Questi testi stupiscono per la loro ricchezza di dati, conoscenze, informazioni sul modo di concepire il tiro con l’arco, sulle tecniche di allenamento e di addestramento e sulle concezioni filosofico–religiose ad esso legate. Tale “civiltà dell’arco” si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, trovando terreno fertile nelle regioni che già erano state od erano sotto l’influenza dei Bizantini ( i “romani” del mediterraneo medievale) , toccando anche le nostre sponde, in particolare nell’Italia Meridionale, ma anche nei territori che erano stati già dell’Esarcato bizantino (Ravenna) o di quelle che più risentiranno dell’influenza ottomana (Venezia).
Ci rserviamo di trattare questi temi in sedi più appropriate, quali ad esempio Arcosophia (sulla quale Giovanni Amatuccio cominciato a pubblicare una sorta di storia dell’arcieria Islamica a puntate) in questa sede, invece, ci preme maggiormente addentrare in un terreno più “politico”, nel senso di partecipazione ad un dibattito ormai in corso da tempo sulle radici dell’arciera tradizionale.

Da questi miei studi, infatti, emergono elementi in grado di rappresentare un contributo spero positivo al dibattito in corso sul concetto del cosiddetto tiro istintivo o tradizionale.
Un primo dato che emerge con forza è che quello che oggi viene definito “tiro istintivo” non è certo un’invenzione moderna, opera di Fread Bear o Howard Hill. In tutti i trattati dell’antichità il concetto che emergeva con forza era che l’arciere per ritenersi tale doveva essere in grado di tirare con precisione, con forza, velocemente e in movimento (suo e/o del bersaglio). Questi erano i “pilastri” (in arabo, arkan) del tiro con l’arco e gli stessi concetti si ritrovano nei manuali bizantini, indù, cinesi. Queste abilità nel loro insieme facevano l’arciere completo. Certo, tali abilità si rifacevano all’arciere militare o cacciatore, ma è da dire che anche le attività puramente ludiche conservavano queste caratteristiche, probabilmente perché in ultima analisi, anche le gare erano una forma di addestramento. E’ evidente che per coltivare l’insieme di queste caratteristiche non si poteva non essere “istintivi” cioè tirare con forza, precisione e velocità allo stesso momento. A caccia o in battaglia non c’era il tempo per mirini o falsi scopi.
Le cose cominciano a cambiare in occidente, quando nel XIX secolo, si assisté ad un revival dell’arcieria defunta ormai da qualche secolo come attività bellica. Quando l’arco cessò di essere un arma da guerra e da caccia fu trasformato in un attrezzo “sportivo” nell’accezione tipicamente anglosassone del termine. L’Inglese Horace Ford il primo grande arciere sportivo, elaborò tecniche e teorie che demolivano definitivamente il concetto del tiro da guerra e da caccia. A lui e ai suoi compagni non interessava più usare un arma, ma semplicemente un attrezzo da divertimento: addio quindi alla forza, addio alla velocità di esecuzione, addio alla mobilità; l’unico fattore che veniva perseguito e sviluppato era quello della precisione. Da qui cominciò il cammino di quella che poi diventerà l’arciera olimpica moderna, con i cerchi, i mirini e tutte le attrezzature atte ad esaltare il maggior grado di precisione possibile. Contro questo modo d’intendere il tiro con l’arco si levò, a metà del secolo scorso, in America ,un nuovo movimento che tendeva a riportare l’arcieria alle sue caratteristiche primitive. Le gesta di Hill, Bear e compagni entusiasmarono anche gli Europei e nacquero esperienze quale quella della Fiarc; e , in nome della pratica venatoria , concetti quali forza, velocità e mobilità ritornavano a far parte del bagaglio tecnico dell’arciere.
Alla lunga, però, l’esasperazione agonistica legata allo sviluppo sempre più vorticoso di nuove tecnologie, sta facendo riemergere , anche all’interno di coloro che avevano fondato la loro ragione d’essere sui suddetti principi, le vecchie obiezioni di Ford, che parafrasate al moderno, suonerebbero grosso modo così: “L’arco non è più un’arma. A che serve la forza della freccia? A che serve la mobilità? In fondo l’unica cosa che conta è fare centro, non importa come e con che mezzi.” In questo modo si torna a rivalutare l’unico parametro della precisione a discapito delle altre. Addio, arciere completo!

La nostra idea, invece, è quella di ridare solide basi ai principi tradizionali del tiro con l’arco. Fondare una pratica di tiro che abbia come scopo la rinascita di queste consuetudini secolari; con un’operazione meritoria verso una tradizione così antica che, paradossalmente, è andata perduta da tempo in quasi tutte le regioni del lontano e vicino Oriente (se si esclude casi quali il Giappone, dove la tradizione è stata salvata solo a costo di un inquadramento in rigidi precetti e forme).

Da ciò emergono tre principi fondanti di tale processo di ricostruzione storico-antropologico-ludico-marziale, sui quali fondare una rinascita delle ricordate tradizioni, che sfugga alle false diatribe e contrapposizioni: mira o collimazione, istinto o ragione, primitivismo o tecnologismo.

1. Rivalutazione dei quattro “pilastri” del tiro con l’arco: precisione, forza, velocità, mobilità; riproponendo la figura di un arciere moderno in grado di padroneggiare e di cimentarsi nell’insieme di tali abilità.

2. Scelta di privilegiare il miglioramento dell’uomo rispetto a quello dell’attrezzatura.

3. Privilegiare l’aspetto della formazione, del percorso, della “via”, rispetto a quello della prestazione, del risultato a tutti i costi,

Il primo punto significa innanzitutto rivalutare il concetto di simulazione, venatoria e perché no bellica, nel quale si adottino forme di allenamento e di competizione basate su sistemi di valutazione di tutte e quattro le abilità, insieme e separatamente.
Il secondo, significa adottare attrezzature quanto più semplici possibili, consci del fatto che solo azzerando il parametro dell’attrezzatura, si possa far emergere e tenere sotto costante controllo il parametro umano.
Con il terzo punto s’intende definire un modo di intendere la pratica arcieristica più vicino alle arti marziali che all’esasperata pratica agonistica degli altri sport moderni. Insomma, una “via dell’arco mediterranea”, basata sulla ricerca del miglioramento psico-fisico di chi la pratica, nella quale ci sia spazio anche per il momento agonistico, ma come verifica del percorso compiuto e non come fatto fine a se stesso.

Vittorio Brizzi
Giovanni Amatuccio

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