Thursday, October 13, 2005

La sperimentazione più difficile che c’è…


Ricostruire una freccia preistorica, un arco medievale, una cuspide in selce è archeologia sperimentale. Ma stiamo attenti: cosa differenzia un appassionato re-enactement da un lavoro scientifico? O meglio, quale è le linea di confine che separa la confusione dal tentativo di far tesoro del nostro passato?


Nell’archeologia la sperimentazione è difficilissima. Le scienze fisiche sperimentali tout court hanno protocolli scolpiti nel granito, percorsi che tutto sommato risultano più semplificati. La variabile comportamentale umana gioca un ruolo talmente preponderante nell’analisi sperimentale archeologica che a confronto leptoni, quark e onde gravitazionali sono soggetti …malleabili da un punto di vista “sperimentale”. Purtroppo questa variabile comportamentale sfugge da qualsiasi possibilità di indagine conoscitiva seria.

Il sottoscritto proviene da un background di ricerca universitaria nel campo delle scienze fisiche, precisamente si è occupato di osservazione astronomica e speculazioni nel campo della cosmologia. Oggi si collabora con archeologi preistorici partecipando con le sue mani a “esperimenti” tesi a ricostruire catene operative sepolte nella notte dei tempi e a ricostruire scenari “predittivi” basati sulla correlazione dei dati acquisiti sul campo con inferenze comportamentali fondate sul sistema - ambiente. La ricerca operativa sulla scheggiatura litica, e sulla Caccia preistorica come attributo comportamentale da indagare (che è quello che più mi interessa) mi ha portato ad applicare concetti sperimentali ad attività dimenticate, e mi ha reso partecipe ad uno sforzo considerevole, tentando di individuare standard e protocolli che avessero un valore pratico di studio attraverso la sperimentazione.
L’indagine sulle nostre origini è un sottomistero molto particolare di quello immanente della nascita dell’universo, e con esso, dal punto di vista speculativo, ha un legame indissolubile. L’astrofisico non potrà mai costruire una stella in laboratorio e sottoporla ad esperimenti, come pure l’archeologo non potrà padroneggiare completamente i fenomeni di studio per via dell’enorme quantità di variabili in gioco, impossibilitato ad “assistere in diretta al fenomeno” che cerca di spiegare.
Nella cosmologia e nell’archeologia, non è sempre possibile applicare rigorosamente il metodo scientifico empirico, galileiano , o sperimentale dir si voglia… comunque lo si deve considerare come “principio ispiratore” per qualsiasi indagine convergente alla realizzazione di un “modello”, e quindi mai andare in contrasto con esso. Questo per una qualità di lavoro e di linguaggio comune che fissa dei punti di riferimento solidi, gli unici che permettono progressi nelle scienze.

Schematicamente
(*) il metodo sperimentale si articola in cinque fasi:

l’osservazione (la "sensata esperienza" di Galileo)
la descrizione del fenomeno
la formulazione di un’ipotesi che si riferisce alle osservazioni (che Galileo chiama "Assioma")
l’esperimento che dovrebbe convalidare o confutare l’ipotesi (il "cimento sperimentale")
la tesi, legge che esprime i risultati ottenuti.

Nella prima fase l’osservatore coglie gli aspetti salienti del fenomeno che permettono di descriverlo schematizzandolo. Ovviamente non e' possibile descrivere qualsiasi processo senza riferirsi all’intuito, all’esperienza e alla sensibilità dello sperimentatore. Nel caso dell’Archeologia, il fenomeno osservabile è costituito dai resti archeologici e dal maggior numero di dati relativi al contesto.
La seconda fase consiste generalmente nel formulare una legge (in fisica classica il linguaggio è la matematica) che si accordi il più possibile con le osservazioni sperimentali.Il passaggio dalla prima alla seconda fase e' un'inferenza induttiva, per cui da un’insieme di osservazioni particolari si giunge ad una affermazione generale.
Il passo successivo e' quello che consiste nel ricavare il maggior numero di conseguenze, e perciò di previsioni, a partire dalle ipotesi. Le previsioni sono modelli funzionali che, in Archeologia, devono contemplare la variabile comportamentale umana.
Questa fase, che consiste in una inferenza deduttiva, si avvale del supporto della matematica. Lo sforzo di deduzione si accompagna anche a quello di sistemazione.
La quarta fase e' quella della verifica sperimentale, in quanto si accetta il principio che, se una legge fisica e' vera, tutte le conseguenze che da essa si possono dedurre matematicamente devono essere confermate dall’esperienza entro i limiti dell’incertezza delle misure. L’esperienza sperimentale, in Archeologia, è la ricostruzione e l’uso del manufatto.

Il presupposto che sottende la fase dell’esperimento e' che questo, se ripetuto nelle stesse condizioni, fornirà gli stessi risultati. Ciò permette di confrontare i risultati in laboratori diversi, di ripetere quante volte si vuole l’esperimento per migliorare la precisione dei risultati.
I percorsi di indagine corretti alla sperimentazione in Archeologia possono quindi essere molteplici, perché ispirati da diverse discipline. Tutte queste vie interdisciplinari devono comunque intersecarsi e ovviamente convergere verso l’unico obiettivo di chiarire la visione e comprensione delle possibili verità. Verità al plurale, perché mai come in archeologia la Vera Verità non potrà mai definirsi certa ed unica. Quindi si devono raccogliere dati, soprattutto si deve imparare a estrarli e gestirli nel modo corretto e nel rispetto delle metodologie d’indagine delle scienze, e si deve ragionare sempre in termini di probabilità e ipotesi.
La storia della sperimentazione in archeologia, soprattutto qui in Italia, è breve, forse neanche è appropriato parlare di storia ma ad una sua più lecita leggenda. Dal mondo accademico è da poco che se ne sente parlare – non sottovoce.
Si è assistito in passato alla sperimentazione di qualche archeologo che, intuendo giustamente in questo una via d’indagine interessante si improvvisava lui stesso vasaio, vetraio, fabbro, scheggiatore, pescatore, cacciatore… deducendo dalle sue esperienze dirette, spesso maldestre, indicazioni comunque “pubblicabili” per via della loro indubbia originalità; questa piccola presunzione ha reso purtroppo un cattivo servizio al progredire delle conoscenze sulla cultura materiale preistorica e quello delle scienze comportamentali umane antiche, per via di alcune conclusioni affrettate, discutibili, ma comunque divenute famose e prese come assunto.
Nello stesso tempo, la grande quantità di volenterosi che si sono autoeletti “archeologi sperimentali” creando associazioni e gruppi di lavoro, a volte animati da uno spirito ingenuo, a volte per pecularci sopra, ha sì diffuso l’interesse per la materia in sé per via della sua spettacolarità ma ha generato enorme confusione, inflazionando il messaggio e creando una cacofonia semantica senza pari, soprattutto tra i mezzi di comunicazione e nel mondo della scuola. Il mondo accademico, naturalmente ha rifiutato questa archeologia dilettantistica, purtroppo eradicando per un lungo periodo (perlomeno qui in Italia) ogni prospettiva seria di sperimentazione scientifica.
Da un altro, chi oggi tra gli archeologi ha raccolto intelligentemente contributi multidisciplinari trasversali da tecnici, artigiani e “specializzati” è riuscito a compiere grandi progressi sull’analisi e interpretazione funzionale dei reperti relati ai contesti culturali specifici.
I personaggi specializzati a cui mi riferisco sono quelli il cui background culturale è l’esperienza maturata in anni di applicazione e le cui caratteristiche “comportamentali” sono comunque basate sulla pragmaticità, cioè il “raggiungere lo scopo” con a disposizione mezzi limitati da una deliberata rinuncia alla tecnologia moderna.
Naturalmente ciò è avvenuto quando il lavoro di equipe tra ricercatori e sperimentatori ha funzionato: quando i tecnici hanno messo a disposizione le loro capacità agli scienziati e quando gli scienziati hanno deciso di stimolare al problem solving questi tecnici specializzati, soprattutto ascoltando le loro osservazioni.
Da qui si può facilmente desumere come l’Archeologo Sperimentale sia da vedersi una figura collettiva, un team, non un solo individuo. L’indagine di scienza e la compenetrazione del problema pragmatico devono andare assolutamente insieme nella stessa direzione. Sperimentare significa rispettare l’empirismo e osservare scrupolosamente degli standard, rispettare un protocollo replicabile ovunque e da chiunque ne abbia le capacità, permettendogli di confutare o confermare le conclusioni. Essere padroni delle condizioni di laboratorio, dei dati e delle procedure significa saper dare un giusto peso ad essi e saper scindere le variabili importanti da quelle trascurabili, e comunque registrare e elaborare sempre con precisione ogni processo e ogni tracciato operativo. Ciò per poter permettere ad altri ricercatori di aggiungere tasselli nel mosaico delle verità indagabili.
Nell’archeologia la cosa è difficilissima. Le scienze fisiche sperimentali tout court hanno protocolli scolpiti nel granito, percorsi che tutto sommato risultano più semplificati. La variabile comportamentale umana gioca un ruolo talmente preponderante nell’analisi sperimentale archeologica che a confronto leptoni, quark e onde gravitazionali sono soggetti …malleabili da un punto di vista “sperimentale”. Purtroppo questa variabile comportamentale sfugge da qualsiasi possibilità di indagine conoscitiva seria.
Ecco perché la sperimentazione in archeologia ha necessità di mezzi, strutture, teste pensanti formate in anni di studi accademici, sia scientifici che umanistici, e soprattutto mediazione e buon senso, intuizione e a volte anche un pizzico di “trasgressione creativa”.
Ha bisogno anche della mano e del cervello di chi sa non solo replicare i manufatti, ma di colui che si pone come obiettivo l’uso di essi in contesti il più possibile simili a quelli desunti dalle ricerche archeologiche e dall’analisi scientifica dei dati. Nessuna delle due parti può fare a meno dell’altra.
Oggi finalmente sembra che le cose possano imboccare una strada interessante. La sensibilità del mondo accademico si è maturata, offrendo la possibilità di un apporto trasversale e multidisciplinare alla ricerca da parte di tecnici maturati, consapevoli finalmente dell’importanza di chi ha “mani” per creare ed usare.
Nel campo dell’arcieria molto è stato fatto, nel tentativo forse ingenuo di nobilitare arco e frecce ad un ruolo non solo ludico-sportivo. E qui mi sento in prima linea: da quando nacque Arco e mi venne l’impegno di lavorarci sopra, partì la stretta collaborazione con la Society of Archers Antiquaries (grazie all’impegno di Stefano Benini e oggi di Jill Victoria Brazier) e si è pubblicato e letto di Storia e Scienza, sono nati “centri di interesse” molto forti, sono nati scambi di opinione non solo locali e si è assistito ad un progressivo incalzare di quesiti e dibattiti. È nato l’arco storico come disciplina sportiva ( …e con tutte le sue incongruenze) ma soprattutto in quasi quindici anni si è posta la premessa per far comprendere l’importanza in termini di indagine sul nostro passato a chi, accademicamente, ha sempre e solo considerato le punte di freccia tutt’al più come indicatori cronotipologici e culturali, senza approfondirne direttamente il ruolo con l’antropologia, l’etnologia e con l’analisi dei comportamenti umani. L’arco e le frecce sono sempre state ai margini degli interessi d’indagine degli studiosi, un po’ per la scarsità dei reperti e un po’ per l’approssimazione delle conoscenze, che spesso ignoravano la sua complessità e la relegavano al rango di un qualsiasi altro “utensile” di legno. Solo dopo l’Uomo dei Ghiacci qualcosa si è mosso, vista la straordinaria complessità e completezza del corredo (ben lungi dall’essere spiegato esaurientemente tutt’oggi) in cui le componenti arcieristiche fanno la parte del leone.
Da parte di studiosi seri si è deciso di indagare più a fondo. Per mezzo di collaborazioni insospettabili si è giunti a dei risultati scientifici. Insomma, si è usciti timidamente dal pozzo.
Lo studio delle punte di freccia (molto più in america per le Culture paleoindiane) è sempre stato tanto seguito. Esistono migliaia di pubblicazioni scientifiche che, dal 1800, ne studiano la forma, la cosiddetta tipologia, le dimensioni, ma solo ed esclusivamente da un punto di vista: quello di identificare la forma come attributo culturale e quindi indicatore temporale in rapporto al sito scavato.
Se viene trovato uno scheletro con punte di freccia intorno, la punta serve a datare la sepoltura. Né più e né meno come la forma di un vaso di argilla. Tra tutte quelle pubblicazioni (vi assicuro, migliaia) solo qualche decina parla (o tenta di parlare) del rapporto forma-funzione; cioè di quel rapporto che cerca di interpretare l’uso e la destinazione di un simile indicatore balistico. Che andassero a caccia o in guerra è sicuro, ma ciò diventa un aspetto …secondario. Capire come una punta di freccia possa differenziare un attitudine comportamentale (relativamente al contesto in cui essa viene rinvenuta) diventa un meccanismo di indagine che può portare ad altre inferenze deduttive importanti, come l’organizzazione sociale, economica e i rapporti di rango tra i componenti della collettività. Comprendere come e perché un arco fatto in un certo modo rappresenti un oggetto di prestigio diventa un indicatore economico e di ruolo, ma comprendere questo è stato possibile solo grazie alla dimostrazione galileiana nella ricostruzione, cioè la difficoltà di realizzare un utensile simile che mette in evidenza non la complessità manuale - costruttiva bensì la consapevolezza del rapporto materiale – forma - funzione, la volontà di perseguire un obiettivo che va oltre l’apparenza. Solo facendo in questo modo si può ottenere uno strumento che “renda” per un determinato scopo, solo conoscendo dove si vuole giungere si può raggiungere quella maestria in grado di tener in considerazione certe variabili strutturali, ecc., cose che un bravo artigiano arcaio ben conosce.

Vittorio Brizzi

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