Monday, October 17, 2005

Arco, freccia e istinto

"Un giorno Drona, per mettere i suoi allievi alla prova, montò una finta
aquila in cima ad una lunga pertica. Al suo comando gli allievi
avrebbero dovuto spiccarne la testa dal corpo con una freccia.
Precisò: 'dovrete dirmi ciò che vedete al momento di prendere la mira'.
Cominciò da Yudhisthira, che spiegò: vedo te, quell'albero,
i suoi rami...'. Drona scosse il capo ed esclamò.- 'basta, basta cosi!

Mahabharata, revisione di R.K.Naravan, 1977.


Parlare di istinto in rilerimento ad un'azione o a un comportamento che non sia direttamente legato all'autoconservazione e alla riproduzione, quindi alla perpetuazione della specie, suona bizzarro.
In natura i comportamenti istintivi, quei moduli fissi che caratterizzano le specie animali (e quindi umane) sono geneticamente determinati in modo diretto.
Questi risentono in modo limitato dell'ambiente e delle sue influenze. Esiste una porzione del comportamento che non a trasmessa geneticamente ed è quella del comportamento appreso, fenomeno assolutamente “culturale”.
In questo caso il controllo genetico a mediato in primo luogo dalla capacità di apprendimento e secondariamente, quando esistono, da canali che orientano l'apprendimento su determinati stimoli o lo circoscrivono entro determinati intervalli temporali (vedi l'imprinting).
Ecco che, nel caso dei comportamenti appresi, l'analisi deve spostare il bersaglio dalla manifestazione comportamentale ai suoi motivi determinanti.
La grande catena delle attività umane in cui l'istinto (in senso lato) dirige il gioco è composta da sistemi di azione-reazione che provengono dal retaggio preistorico in cui l'attività umana era animale piuttosto che razionale e da tutti quei comportamenti artificiali che si sono plasmati in funzione dell'adattamento all'ambiente nel corso dell'evoluzione . Il comportamento istintivo, direttamente influenzato dalle
emozioni, è un linguaggio che ci parla dal profondo. Alcune manifestazioni istintive sono per noi consuete, come certe reazioni al pericolo, la protezione della nostra progenie, il meccanismo del corteggiamento.
Ma la catena è fatta anche da anelli costituiti da manifestazioni nell'ambito dell'agire, nei confronti dell'ambiente e delle cose, molti dei quali si sono via via indeboliti con l'impoverimento dei sensi (che furono all'alba della nostra evoluzione la componente animale più preziosa per la difesa e in caccia) e solo alcuni di essi in noi ogni tanto emergono.
Quando accade ci lasciano stupefatti e confusi, spesso disorientati. La differenziazione tra azione puramente istintiva e azione acquisita per adattamento all'ambiente, al suo mutare e alle circostanze, che diviene via via naturale e trasmissibile, molto spesso sfuma come pure il suo significante. Siamo infatti animali ibridi.
L'istinto puro lo si può solo vedere tra le bestie, nell'assistere ad un cucciolo di leopardo che si allena ad una caccia "da grandi" mentre vicino a lui la madre vigila e osservando le tantissime e miracolose azioni che ci appaiono nei documentari naturalistici.
Per un cacciatore L’istinto è quella componente di cui riappropriarsi, per misurarsi
con il selvatico, quella dimensione perduta che permette la disumanizzazione necessaria alla sua ricollocazione nella natura e nell'ambiente.
Quand'è che una componente diventa istintiva, in altre parole, quando accade che uno schema di azioni sviluppate in funzione di un'esigenza basale diventano da tecniche a patrimonio istintuale trasmissibile con i geni? Su questo fronte si sa ancora molto poco. Comunque sia, è possibile che certe attitudini di adattamento all'ambiente sviluppino un meccanismo di selezione naturale in cui i possessori della soluzione al problema (e che quindi sopravvivono) tramandino ai loro posteri quelle abilità/capacità che permettano loro di sopravvivere a loro volta all'ambiente o alle sue avversità. Una sorta di aggiustamento genetico alla predisposizione di apprendere, che può anche perdersi una volta che l'ambiente (e la selezione} si trovi modificato e non richieda più tali caratteristiche.
Il filosofo e antropologo Bateson parla di due categorie di meccanismi comportamentali attivi e produttivi a cui è possibile ricollegare praticamente tutte le azioni umane: la calibrazione e la retroazione.
Sono entrambe attività controllate dal cervello e realizzate dal corpo, entrambe acquisiscono input dall'ambiente ed entrambe provocano una reazione nei nostri muscoli, nel nostro agire. Esistono quindi due metodi di perfezionamento di un'azione adattativa. Nel nostro caso, le vediamo nel rapporto legato al colpire a distanza.

La calibrazione.
La calibrazione deriva in senso stretto dall'analisi dei sensi e della parte istintiva del cervello. In pratica non analizza ad uno ad uno i processi, ma si esprime con una reazione a cui corrisponde spesso un'azione diretta del corpo in tempi rapidissimi.
Viene affinata via via con la pratica, con la ripetizione, con l'assimilazione inconscia delle variabili. La caratteristica fondamentale di questa calibrazione è il tempo di allenamento necessario a far si che diventi uno strumento efficace, a prova di errore (solo su un grande numero di sbagli si viene a stabilire un processo calibrativo valido), ma nello stesso tempo si dimostra estremamente adattabile alle diverse circostanze e permette il raggiungimento di obiettivi sorprendenti. Il suo unico limite è l'energia da impiegare necessaria per ottenere una pratica sufficiente a non sbagliare. Imparare una attività manuale è qualcosa di simile, una sorta di adattamento progressivo dei sensi inconsci ad una operazione ripetuta più volte.
Il carpentiere che inchioda assi in modo efficiente ed ergonomico sfrutta un allenamento fatto di migliaia di ripetizioni e correzioni, non ragiona mentre alza il martello e colpisce il chiodo. Non si può parlare di carpenteria istintiva; ma se la carpenteria divenisse nel lunghissimo tempo un'attività chiave per la conservazione della specie umana, il carpentiere sopravvivrebbe agli individui non carpentieri e probabilmente quindi diverrebbe un trasmettitore di geni selezionati. Nell'istinto delle sue future generazioni si avrebbero individui in grado di piantare chiodi con un apprendistato ridottissimo grazie alla predisposizione genetica all'apprendere l'arte in
finestre temporali ben definite.
Ci troviamo di fronte quindi ad attività naturali (il cui svolgersi cioè non richiede l'uso della ragione), alcune delle quali possono divenire parte del patrimonio genetico trasmissibile degli istinti, altre invece di categoria inferiore che non lo diventano.
Un processo sicuramente istintivo e quindi calibrativo è il camminare: il bambino, quando smette di camminare a quattro zampe e impara a camminare a due, lo fa dopo cadute e scivolate. Il bambino, crescendo, istintivamente impara a camminare. Anche se i genitori lo aiutano, in realtà egli non ne ha un grande necessità, essi non gli insegnano nulla. Il meccanismo ontogenetico va da solo ed è suggestivo come esso riproduca la filogenesi del primate ominide che fa suo il bipedismo, in un tempo cortissimo.

La retroazione.
La retroazione è un processo governato dalla componente razionale del cervello umano. Generalmente a mediato da sistemi meccanicistici ed unità di misura, che vengono in aiuto e che spesso diventano la struttura portante del meccanismo in cui la mente razionale acquisisce un dato alla volta, ha la necessita di elaborare le informazioni secondo un processo lineare (il punto di partenza deve essere univocamente determinato, come pure le situazioni al contorno) e porta al risultato attraverso una correzione delL’errore progressivo e compiuto a piccoli passi.
La precisione dei risultati ottenibili con la retroazione è molto alta ed è in funzione della quantità di variabili in gioco e della precisa conoscenza di esse. La retroazione è scientifica e "galileiana" a tutti gli effetti: identificati i parametri, il processo può essere replicato e il risultato è praticamente garantito. La retroazione a un'attività
umana, non animale, perché frutto di un meccanismo cognitivo assolutamente governato dalla ragione.
Ma tutto questo cosa c'entra con il tiro con l'arco?
Oggi il tiro con l'arco viene praticato evidentemente in due maniere fondamentali, in una si assiste esteriormente alla esaltazione della tecnologia: archi datati di carrucole (i compound) che demoltiplicano lo sforzo per consentire una mira più confortevole,
unitamente ai dispositivi di mira (diottra, mirino e visette) che consentono un allineamento (previa opportuna taratura) can il centro del bersaglio di cui se ne conosce la distanza. L'altra forma, chiamata istintiva, viene seguita da chi ama l'attrezzatura tradizionale, essenziale e primitiva e dichiaratamente con essa non avviene collimazione (non esistono il mirino ed altri orpelli per facilitarla o indurla). A tutti gli effetti, la polemica a cui si assiste sui campi di gara e nei raduni che contemplano entrambe le specialità è spesso quella che viene espressa dal dubbio, a volte lecito, che chi più coglie il bersaglio a tutti gli effetti miri con la punta della freccia su un falso scopo a con qualche altra cervellotica combinazione di riferimenti esterni al centro del bersaglio che si deve colpire. Si parla di stile e si sconfina nella filosofia morale. I "puri" disdegnano le accuse di mirare. In gara la tensione è solo agonistica, l'ansia per il confronto con gli altri.
Il bersaglio è un foglio di carta o una sagoma tridimensionale a forma di selvatico, le distanze, anche se sconosciute, comunque comprese in un range che va dai 5 metri ai 50, sono proporzionali alla dimensione dell'area vitale corrispondente al punteggio massimo ottenibile. La valutazione della distanza, per chi mira con l'arco tecnologico (0 per chi "bara" cogliendo riferimenti e collimando con la punta della freccia), è critica solo in virtù del punteggio.
In caccia la situazione è completamente diversa.
Prima di tutto le distanze sono inferiori, e di molto, mediamente; poi la tensione è estremamente più alta e le occasioni di tendere l'arco sono mostruosamente più rare. L'emozione gioca brutti scherzi. Evidentemente, il meccanismo retroattivo sta al tiro al bersaglio come quelle specialità che implicano la mira oggettiva, il traguardo e la collimazione. L'intervento umano è ricorrente sull'oggetto arma-bersaglio. Il primo colpo determina un risultato, grazie al quale l'uomo modifica strumentalmente gli apparati di mira o l'impostazione della sua struttura, fino al raggiungimento (taratura del sistema) del bersaglio nel suo centro. Arrivare in gara con un’attrezzatura ben tarata e con un allenamento appropriato è fondamentale.
L'errore che deve essere corretto (l'informazione che deve essere usata) è la differenza tra la mira del sistema mirino e la direzione del bersaglio, più il fattore correttivo della gravità (funzione della distanza e della massa della freccia). In allenamento questa taratura è il fattore chiave per poter cogliere il bersaglio in situazioni simili tra loro. Sempre in allenamento può darsi che l'arciere debba percorrere molte volte questo circuito: ricevere la notizia dell'errore, correggerlo, ricevere la notizia di un errore minore 0 nullo ed infine rilasciare la freccia.
In questo modo l'arciere, nei calcoli consci che fa al giro successivo, non riporta notizie o informazioni su ciò che si è verificato al primo giro. L'unica informazione è l'errore su quel dato istante. Egli non ha bisogno di mutare se stesso.

Il meccanismo calibrativo è completamente diverso: per l’arciere mirare e rilasciate la freccia è un unicum; non ha il tempo di correggere la mira prima del rilascio.
Allinearsi-tendere-rilasciare è una sola azione, il cui risultato (bersaglio colpiùo a no) deve essere riportato come informazione alla successiva azione di tiro. E l'intera operazione che deve essere migliorata, l’oggetto dell'informazione è quindi l'intera operazione.
Al nuovo tiro l'arciere deve calcolare (e lo fa inconsciamente) la propria azione basandosi sulle informazioni relative alla posizione del nuovo bersaglio e sull'esperienza fatta nei tiri precedenti e soprattutto sul loro esito. Le differenze tra i tiri effettuati ed i loro risultati sono lo stimolo cinestetico che permette di affrontare nuove situazioni di tiro. L’affinarsi delle percezioni (ambiente, luce, contrasti, vento, differenze altimetriche) affina il tiratore e lo rende efficace, al prezzo di tanto allenamento.
In sintesi, chi tira mirando percorre semplicemente il proprio percorso cibernetico un certo numero di volte separate; chi tira istintivamente deve acquisire via via la propria abilità per accumulazione, inserendo le esperienze successive in quelle che sono già
state compiute. Ogni tiro è il prodotto di un "nuovo arciere", calibrato dalle esperienze precedenti.
Il tiro tradizionale nasce con l'arco tradizionale, cioè quello semplice ed essenziale della preistoria e dei primordi della storia. La visione suddetta fa sua la pratica del tiro istintivo, termine a volte fuorviante come si è visto.
Volendo analizzare quanto ci può essere di istintivo in un modello di tiro calibrato, ci si può perdere in un mare di indeterminatezza. A tutti gli effetti, da quanto si è scritto, il tiro istintivo è un tiro olistico tout court che coinvolge l'intero corpo dal punto di vista cinestetico, che non spezza l'azione in fasi separate su cui poter agire in modo retroattivo, che ingloba a sé l'attrezzo (l'arco diventa uno strumento di propulsione di un proiettile, sostituisce il braccio che scaglia la pietra o la lancia) e che si ottimizza con tanta pratica. L'adattamento del corpo-sistema propulsivo, combinato can le percezioni (propriocezioni) dell'assetto calibrate in successivi atti immagazzinati nella memoria gestuale, lo identificano come un processo di autoapprendimento ricorsivo come il camminare, correte a lavorare con le proprie mani sulla materia.
Quindi chiamare questo tiro con L’arco “istintivo” è forse una esagerazione semantica, che però fa intendere con immediatezza la sua essenza. Si potrebbe discutere come il predare faccia parte del patrimonio istintuale della nostra specie e da Iì pure il “colpire a distanza”. Sotto questo aspetto, scagliare la freccia con il corpo senza intermediazioni della ragione che sfrutta la retroazione correttiva, con la pratica sui propri errori, potrebbe essere intravista come L’estrema evoluzione del gesto predatorio coerente con l'espressione comportamentale venatoria.

Niente mira oggettiva ne calcolo
Il tiro istintivo presuppone L’assoluta mancanza di strumenti di mira e L’inutilità della valutazione oggettiva della distanza di tiro.
La freccia compie comunque una parabola apprezzabile nel suo cammino. Associare la valutazione giusta della distanza del bersaglio da noi implica un vero e proprio calcolo balistico. Se la distanza esula i 30 metri, il gioco si fa dilficile. Ma tra i postulati sacri della caccia con L’arco si trova il lemma che vieta assolutamente tiri a distanza superiore e quindi tutta la vicenda si semplifica. A 20 metri, distanza ottimale per colpire, la traiettoria è pressoché è rettilinea. Il tiro istintive predica di mirare con il corpo e non solo con gli occhi.
E fondamentale quindi sensibilizzarsi sull'assetto del corpo e non rimanere vincolati a schemi accademici di tiro "scuola".
Il terreno di caccia è sempre vario, quasi mai troverete un appoggio regolare e piano. Ecco che diventa importante quindi essere flessibili, percependo come fondamentale l'asse scapolo-omerale che si configura quando tendete l'arco.
II braccio di esso, la mano che lo regge (non lo stringe), le spalle e l'avambraccio dalla parte della corda devono essere l'affusto pivotabile grazie al bacino su cui impostare la corretta azione. Essa deve essere sempre dinamica, perfettamente fluida ed in espansione.
Non importa assolutamente bloccarsi in mira, anche perché non avete alcun mirino da collimare. E allora come fate a prenderci? Semplice. Basta concentrarsi sulla più piccola porzione di bersaglio visibile e scoccare.
Certamente le prime volte i risultati non saranno eclatanti, ma il computer interiore, il meccanismo calibrativo, via via che acquisisce informazioni specializzerà il gesto. E comunque fondamentale focalizzare l'azione sul piano verticale, cioè enfatizzare L’azione dinamica avanti-dietro in modo da mantenere sempre il piano di forza corretto. In questo modo ridurrete gli errori sull'orizzontale e disperderete solo in alto-basso. Se siete gid impostati bene, dovreste aver già apprezzato ciò. Questo, in altre parole, significa che l'unico ostacolo da superare a legato alle diverse distanze da coprire e L’allenamento con il vostro computer interiore farà il resto. E solo questione di pratica. La distanza limite dei 20 metri in caccia reale è importante proprio perché non implica particolari difficolta balistiche e la freccia da caccia pesante, con qualsiasi arco da caccia adeguato venga scagliata, avrà ancora sufficiente energia per poter penetrare lesivamente i tessuti.
In caccia simulata, per divertimento, si pua andare ben oltre e fino a 40-50 metri si potrà ottenere egualmente un buon raggruppamento di rosata can un buon allenamento. Nelle competizioni tali distanze sono comuni ed è estremamente utile alienarsi anche a distanze superiori.
Ci si renderfi conto rapiùamente dell'importanza dell'assetto sul piano verticale e delfimportanza del follow-through successivo al tiro. Su questo torneremo più avanti.

L'impostazione del corpo
Un particolare importante: inclinate il busto in avanti e parallelamente anche l'arco. Questo vi permetterà una visione estremamente chiara di ci è che vi circonda e una comunicazione diretta con il bersag1io senza il diaframma visivo della finestra dell'arco (ciò è inevitabile quando lo si mantiene diritto).
Ricordate che l'equilibrio della postura è fondamentale e va ricercato sempre prima di impostare il tiro. Non sacrificate energie in allenamento, alla scoperta del miglior assetto. Esso sarà sempre e comunque quello che vi permetterà un'espansione efficace ed un controllo durante e dopo il rilascio.
Questo stile di tiro può ovviamente personalizzarsi alle specifiche antropometriche del tiratore. Chiamandosi istintive non può essere racchiuso da uno schema unico per tutti. Il segreto della sua efficacia è proprio in questa sua attitudine all'adattamento, che tiene come punto fisso la dinamicità dell'azione e la fluidità.
Questa tanto decantata dinamicità di conseguenza riflette un'altra sua potente specilica: la velocità del tiro. Tirare velocemente e ripetutamente fa parte del background di ogni cacciatore vero a simulato che si rispetti. Per arrivare a ciò diventa ancor più necessario allenarsi a tirare mantenendo fissa la concentrazione sul bersaglio, senza mai distoglierla.
L'operazione di incocco, che prelude al tiro, deve diventare automatica e assolutantente ininfluente sul flusso dell'azione, finalizzata al cogliere il bersaglio. Da ciò risulta evidente come sia necessario apprendere ad incoccare sulla corda non guardando altro che avanti a sè, verso il bersaglio.
Per far si che questo stile si faccia proprio non c'è niente di più avvincente come l'allenamento di caccia simulata sù sagome tridimensionali e bersagli mobili. Ma anche vagare per boschi, tirando a foglie cadute, rami secchi, macchie di luce (il classico roving) che da decenni è sempre stato il modo migliore per allenarsi fuori stagione, rappresenta un bellissimo modo per testare la propria preparazione prima di scendere in campo.
Un allenamento estremamente proficuo si può attuare tirando a distanze limite, assolutamente fantasiose. Ciò può essere utile per rendersi conto dell'influenza del proprio in sull'atto del tiro; in altre parole, da vicino, la concentrazione e la rilassatezza necessaria al buon tiro spesso viene inquinata dal timore di non colpire e L’atto subisce una perturbazione tale da bloccare il flusso naturale.
Subentrano fattori di disistima ed insicurezza (come non essere sicuri di essere allineato, la paura di cedere, di far brutta figura di fronte agli amici, ecc.) che rovinano tutto e il controllo automatico del gesto va a farsi benedire poiché il cervello razionale prende il sopravvento su quello istintivo cercando di analizzare e correggere.
Purtroppo il nostro cervello analitico può prendere in considerazione un solo processo alla volta e nel tempo, seppur breve, dell'analisi tutta la catena di azioni e reazioni naturali si inibisce.
Per rendersi conto di ciò, appunto, la cura può essere il tiro alla lunga e lunghissima distanza.
Se ponete un palo a cento passi e cercate di indirizzare le frecce contro una lattina di birra infilzata sulla sua sommità, affronterete tutto come un gioco e la vostra ragione si farà "una ragione" del fatto che per il vostro livello ciò che vi è chiesto va oltre l'umano limite. Sarete molto più indulgenti con voi stessi e con i vostri dubbi ed incertezze.
Tirerete e basta, magari godendovi una buona volta un volo delle frecce per intero che durerà almeno due secondi.
Ebbene, tirate pure in libertà parecchie frecce. Poi andate a ricercarle sul terreno. Molto difficilmente avrete cotto la lattina, ma non stupiùevi se una o due frecce hanno colpiùo il palo a sono nelle vicinanze. Un prodigio!
Fate di più. Cercate sul terreno le due frecce più lontane (nel piano orizzontale) disperse a destra e sinistra e misurate L’errore. Probabiltnente sarà di due o tre metri, non maggiore. Ora riportate questo errore alla distanza a cui normalmente tirate: tale scarto, confrontato alle distanze classiche a cui vi allenate, corrisponde ad un errore di pochi centimetri in più o in meno dal centro. Uno scarto veramente esiguo, se pensate alle giornate non proprio fortunate dove da pochi metri vi capiùa di sbagliare il supporto del bersaglio, o quasi. Ecco quindi la risposta: in situazione rilassata il vostro computer interiore gestisce perfettamente tutta la situazione, ed è in grado di fare case ben più grandi di quelle che supporreste. E chiaro, il fatto di saperlo non guarirà in un lampo le vostre affezioni. Però vi segnalerà una via, tutt'altro che pessimistica, da seguire per risolvere i vostri problemi.
Lasciar fluire l'istinto, parcheggiare per una buona volta l'io arrogante della ragione e abbandonarsi alla fisicità dell'atto senza paragonare se stessi a qualsivoglia modello cercando di essere, non solo di apparire, è un'interessante ricetta antistress che vale non solo per il tiro con l'arco, ma che esprime la sua potenza in modo molto immediato attraverso l'applicazione di questa antica disciplina…istintiva.
Se veramente riuscirete a farvene una ragione, vi renderete consapevoli di possedere tutto ci è che vi serve e avrete fatto una grande conquista in termini di autostima e fiducia. E questo è ciò che più conta.

Il follow-through, questo sconosciuto
Tirando alle lunghe distanze si scopriranno più facilmente i misteri del follow-through. In effetti quest'ultimo è sempre stato spiegato in maniera alquanto sibillina. Se leggete sulla maggior parte dei manuali d'istruzione il capitolo dedicatogli, sembra che tra le fasi del tiro, prese rigorosamente in esame (postura, incocco, tensione, mira, rilascio e follow-through) il nostro sia una sorta di “figura rituale”, una costrizione forzata finale necessaria per l'autoesame cosciente dell'azione mentre la freccia corre verso il bersaglio. Tutto ciò fatto can l'arco ancora vibrante in mano, L’occhio che scruta l'impatto della freccia, la mano della corda mollemente rilassata sulla spalla.
A molti allievi, invero, viene ordinato tutto ciò, quand ancora non riescono a capirne il significato perché non capaci di organizzare completamente L’azione coordinata del tiro e quando per loro tirare frecce in serie una dopo L’altra nel tentativo di svuotare rapidamente la faretra sembra l'unico incosciente obbiettivo da perseguire. Ebbene, è questo il caso eclatante in cui la causa viene confusa con l'effetto. Il follow-through avviene quando l’azione di tiro, svoltasi in ossequio ai piani di forza, è avvenuta nel modo migliore. Esso accade da solo, quando la concentrazione di chi tira è tale da “spingere” mentalmente la freccia durante tutta la sua parabola verso il centro del bersaglio, quando L’energia dell'arciere (non solo quella muscolare) si proietta nell'atto di colpire il segno voluto. Non è quindi una “figura obbligata” della sequenza del tiro, ma a la conseguenza diretta, osservabile dall’esterno, di un'azione ben fatta. Per cercarla, la raffigurazione mentale, L’idealizzazione di poter realmente guidare la freccia nel suo volo con la forza della mente dopo il rilascio è ciò che serve. Da fuori, gli spettatori vedranno un perfetto follow-through.


[1] Bateson, G. Mente e natura, Adelphi 1993; Mittelstaed, The analysis of behaviour in terms of the control systems, New York, 1990.

Abbasso l'errore: Note sulla Costruzione Personale nella didattica nel tiro con l’arco

In queste note non parliamo di tecnica agonistica, ma di istruzione di base. Uno dei guai più comuni che attanagliano le società arcieristiche è la fuga di arcieri dopo i primi mesi di attività, dovuta nella maggior parte dei casi ad una tendenza a relegare l’imprinting verso standard poco motivanti o, peggio, verso la trascuratezza di chi opera per l’insegnamento.
Il lavoro sperimentale svolto dal sottoscritto e Edo Ferraro, coordinatori della Commissione Istruzione FIARC, in questi ultimi anni si è rivolto verso questa direzione nel tentativo di superare tale problema. E pensiamo, alla luce dei risultati ottenuti, di aver messo le mani su qualcosa di importante. Presunzione a parte, la logica di questa "rivoluzione" interessa per prima il nostro caro vecchio corso di base, e probabilmente potrà evolversi negli stadi più evoluti dell’apprendimento.Essa si ispira ad una didattica ancora sotto "esperimento" ma ben conosciuta nell’insegnamento delle scienze chiamata "Costruttivismo", mai applicata sul campo dello sport e delle discipline atletiche. Veniamo quindi al sodo.
Innanzi tutto è da mettere in chiaro che la sequenza temporale delle lezioni non è scansionata in alcun modo da "gradini" di difficoltà, argomenti o passaggi obbligati.Il consueto corso di base, che prevedeva le lezioni in scaletta (impostazione dei piedi, del corpo, dell’asse spalle braccia, mano dell’arco, braccio dell’arco, mano della corda, rilascio e follow-through) oggi è visto nella sua globalità, senza questi step canonici "espositivistici".
Il concetto che deve guidare l'Istruttore è quello che vede l’espansione sui piani di forza come unico obbiettivo da raggiungere ai fini della tecnica di tiro, lasciando i dettagli all’interpretazione dell’allievo che via via scoprirà da solo la strada che più gli si confà.
Questo non rinnega completamente il passato, che ha visto una didattica dettagliarsi nel canonizzare stili, sequenze e fasi di tiro; semplicemente semplifica il problema, ponendo come unico bersaglio per l’apprendimento il "movimento" nella sua globalità, e l’obbiettivo essenziale da raggiungere quello di sensibilizzare l’ allievo verso la comprensione dei concetti "piano di forza" ed "espansione dinamica". A tutti gli effetti, questi sono gli unici punti fondamentali e comuni tra tutti gli stili di tiro efficaci, indipendentemente dalle loro peculiari varianti. Problemi legati al caricamento dell’arco (leveraggi verticale, orizzontale, dal basso, dall’alto, power archery, ecc.) risultano secondari ed accessori. Sarà l’allievo stesso a scegliere.
Suddividere le lezioni per argomenti risulta poco vantaggioso, alla luce delle precedenti considerazioni. Ogni allievo possiede un "tempo relativo" di apprendimento scansionato da scoperte legate alla sua sensibilità ed esperienza motoria.
In parole povere, l’Istruttore alla prima lezione deve:
1) osservare l’allievo ai suoi primi tiri, cercando di non influenzarlo minimamente con parole o modelli dal vivo; questo perchè la motivazione che lo ha spinto ad iscriversi al corso presuppone un embrione di "modello ideale" per il quale, si suppone, egli è ben intenzionato a lottare per rappresentarlo al meglio;
2) studiare tale tentativo di "rappresentare il modello ideale personale" individuando gli ostacoli principali che si frappongono verso il raggiungimento dell’obbiettivo, che nell’essenza si riduce alla padronanza dell’assetto lungo i piani. In questo tentativo probabilmente è contenuta una matrice non del tutto sbagliata, la quale va stimolata perchè si ottimizzi pienamente.
Quali sono i criteri di giudizio che ci permettono di dire che tale matrice è da ottimizzare?
semplicemente in funzione di quanto tale modello si avvicina ad un ideale in cui i piani di forza vengono rispettati con un movimento in espansione. Questa è la premessa fondamentale.
Da questo punto in poi parte la vera didattica della "Costruzione Personale".La Costruzione Personale parte dal presupposto che qualsiasi tipo di conoscenza non deve essere "trasmessa" dal maestro all’allievo, come bene o male è stato ogni tipo di insegnamento a cui siamo stati sottoposti fino ad oggi in tutti i campi (Espositivismo); con un docente, cioè, che plasma l’allievo forzandolo ad apprendere nozioni e modelli. In questo modo le conoscenze rimangono appiccicate all’ esterno della sfera delle sue conoscenze e non si radicano, se non con molta fatica, in profondità (è questa fatica una delle prime responsabili dei molti abbandoni).
L’insegnante cerca invece di far scoprire all’allievo la sua propria idealizzazione della disciplina, stimolandolo nel concretizzare la sua personale interpretazione la quale parte già da un’idea posseduta in partenza e che a mano a mano deve raffinarsi.
In questo modo l’apprendimento acquisisce sostanza, non viene dimenticato e soprattutto gratifica, perchè è sostanzialmente creato a misura dallo studente stesso. Il docente deve stimolare l’allievo in modo tale da evidenziare ed eventualmente anticipare gli ostacoli che egli troverà nel cammino, e sarà l’allievo stesso a proporre soluzioni che non comportano l’osservanza di nessun dogma precostituito e gratuito.L’espansione lungo i piani di forza corretti risulta essere l’unico "dogma" da rispettare, ma essa è una condizione naturale di ottimizzazione del gesto in ergonomia, e istintivamente (l’esperienza sperimentale insegna) essa risulta contenuta, anche se in maniera più o meno latente, in ogni allievo.La figura del docente sfuma dall’immagine di colui che obbliga ad un percorso d’apprendimento a tappe precostituite, trasformandosi in un compagno (più esperto) di scoperte, che propone strade diverse finché la forma più gratificante del cammino si forma da sé nell’allievo.
Egli "costruisce" in prima persona ciò che più lo gratifica.
Per ciò che riguarda la nostra disciplina specifica, il tiro con l’arco di qualsivoglia etichetta, alcune argomentazioni non possono essere risolte senza l’ausilio della meccanica didattica tradizionale (ad esempio le regole di sicurezza!!) ma la cosa funziona in modo straordinariamente efficace, e si può prevedere, soprattutto agli inizi, una sorta di metodo in cui Costruzione Personale e didattica tradizionale (Espositivismo) camminano assieme.
La didattica dovrà essere impostata quindi in una direzione estremamente flessibile attraverso un dialogo Istruttore-allievo costante, in cui il primo "propone" esperimenti e il secondo li esegue commentandoli più profondamente possibile.
Da questo dialogo l'Istruttore deve trarre spunti per poter proporre via via situazioni diverse che enfatizzino gli ostacoli canonici che l’allievo troverà nel suo cammino di scoperte.
All’allievo non potrà mai venir detto che ciò che compie è sbagliato e basta, ma gli si dovranno proporre esercizi tali per cui egli stesso percepisca, ad esempio, instabilità, tensione o disagio. I suoi non saranno più "errori", quindi, ma difficoltà nel superare ostacoli. Il compito dell’ Istruttore, ripetiamo, dovrà essere quello di enfatizzare questi ostacoli per renderli più evidenti e meno insidiosi, e quindi più facilmente affrontabili dall’allievo stesso.
Non bisogna dare mai la soluzione ad un quesito posto. Bisogna farla ricercare all’allievo, ed aiutarlo nella ricerca; una volta trovata, concettualizzarla. Sarà necessario, giocoforza, affrontare un ostacolo alla volta, organizzando con domande ed esercizi situazioni che possano mettere in crisi l’idea o l’atteggiamento motorio che per l’allievo costituiscono ostacolo all’acquisizione del movimento in espansione lungo i piani di forza corretti. Come pure è necessario che l’allievo impari a "sentirsi" nel movimento, a percepirsi sempre più profondamente, cercando di lavorare sulle sue sensazioni fin da subito portandolo a focalizzare gli ostacoli. Tutto ciò tenendo ben presente che i processi cognitivi e le velocità di apprendimento non sono ovviamente uguali per tutti, e che è necessario rispettare i livelli di partenza (fisici, culturali e psicologici) e le individuali velocità e capacità di autoanalisi e strutturazione del proprio modello motorio e concettuale, veri e propri filtri personali attraverso i quali si apprende e si interpreta la realtà. Non bisogna violentare nessuno.
Quali sono i "problemi" immediatamente emergenti dal voler applicare questo metodo? sicuramente la difficile applicabilità e comprensione da parte dell’istruttore abituato ad insegnare in modo tradizionale. Ai nostri corsi di aggiornamento per istruttori FIARC diplomati secondo i vecchi canoni, si assiste alla più svariata quantità di reazioni. C’è chi sbalordisce, strabuzza gli occhi, viene colto da malessere.
-Come, non devo più correggere? devo osservare, trattenermi nell’abbassare la spalla dell’arco all’allievo che la spinge verso l’alto, e cosa devo proporre?- C’è invece chi (e qui c’è da preoccuparsi) neanche ammicca, dichiarando con autorevole sicurezza che lui l’aveva già scoperto, nonché sempre capito, sempre applicato e che si meraviglia dello choc degli altri colleghi.
Molto spesso questi equivocano. La vera difficoltà nella comprensione del metodo sta nella negazione di un modello da seguire pedissequamente, qualsiasi modello come quello personale che l’istruttore ha conquistato dopo anni di fatica, e pure quello del campione olimpico. Ridurre il modello a due semplici e fondamentali obbiettivi, quello dei piani di forza e quello dell’espansione, è una semplificazione elegante che però richiede estrema maturità tecnica e competenza nell’applicarlo, e tanto coraggio nel "smontare" le proprie radicate convinzioni costruite in anni di attività, accettando le interpretazioni dell’allievo anche se si discostano dai canoni consueti. Ci vuole maturità e voglia di rimettere (e rimettersi) in discussione. Purtroppo esse non sono piante comuni nel nostro orticello. Cari Istruttori, dite la vostra. Ogni scambio di esperienze è prezioso, e queste righe vogliono solamente stimolare ad un dialogo.

Thursday, October 13, 2005

Caccia all'assassino

“Iceman, Hunt for a Killer” è il seguito di uno dei migliori e più premiati documentari realizzati su Otzi, ICEMAN, diffuso a marzo del 2002 in USA e relativo alla scoperta della cuspide conficcata nella sua spalla sinistra, allora recentissima. Brando Quilici, figlio d’arte del Folco di documentaristica memoria, ebbe l’intuizione di realizzare un documentario a tinte “gialle” e lo ambientò ad arte tra laboratori e patologi legali in quel di Bolzano, ove è gelosamente custodita la mummia. Se nel primo emerse la fascinazione della scoperta scientifica (pensate, dopo più di undici anni!) nel secondo documentario l’intento è stato quello di indagare le possibili circostanze della morte violenta, suscitando una gran quantità di domande e ipotesi. La mia operazione di consulenza, come potrete facilmente immaginare, era quella relativa alla ricostruzione coerente dell’attrezzatura arcieristica, dei problemi balistici dell’ipotetico tiro e sulla ricostruzione delle armi della cultura del rame; in altre parole un processo di reverse engineering tale da poter ipotizzare le circostanze arcieristiche che hanno implicato la morte del nostro soggetto. Tutto questo in collaborazione con Annaluisa Pedrotti dell’Università di Trento, membro del comitato scientifico archeologico dell’Uomo dei Ghiacci, che dalla sua scoperta vi ha lavorato ininterrottamente ed Egarter Vigl, il curatore della mummia.
Il giallo è appassionante. I dati sono innumerevoli, ma di difficile interpretazione. Molti di essi emergeranno probabilmente dalle future indagini, ma già da questo momento è possibile dedurre logiche interpretative, o perlomeno escluderne alcune fino ad oggi ritenute possibili.
Il dover ricreare, per una fiction scientifica le possibili circostanze dell’agguato e del combattimento è stata una esperienza assolutamente memorabile. Oserei dire un “esperimento” archeologico condotto senza risparmio. La troupe del Discovery Channel e della Brando Quilici Production (più di quindici elementi) ha permesso l’utilizzo di attori professionisti che hanno acrobaticamente “recitato” le possibili situazioni in settimane di lavorazione continua. Lo scenario, a 3200 metri di altezza (ovviamente non si è girato sul luogo reale della scoperta per evitare qualsiasi possibilità di inquinamento) in un’area prossima e comunque simile al killing site, ha reso l’ambientazione estremamente realistica e soprattutto ha permesso a noi "indagatori" una serie di ipotesi e sperimentazione di dinamiche difficilmente evocabili a tavolino. Non oso pensare alla fatica dei poveri (!) attori di cinecittà e altri reclutati in Val Venosta, formidabili professionisti abbigliati con estrema cura, in pelli e attrezzature ricostruite, che hanno subito eroicamente le nostre richieste; decine di ripetizioni e rielaborazioni di scene e azioni che via via ci venivano in mente. Nel documentario vi è stata anche la partecipazione di due validi arcieri FIARC, della 06 Alpi, che hanno partecipato ad una simulazione del tiro fatale con attrezzatura tecnologica da grande distanza. La loro prova ha dimostrato la difficoltà del tiro ad alta quota, con atmosfera rarefatta e vento in cresta. Naturalmente il documentario mostra brevissimi spot di queste azioni, nella logica di esporre in modo spettacolare le possibilità e commentandone il grado di probabilità scientifica. La realizzazione di alcune scene complesse mi ha permesso di dare uno sguardo e partecipare al difficile mondo della regia, degli effetti speciali e delle riprese acrobatiche. Il mio compito sotterraneo era quello di addestrare gli attori ad un uso probabile delle armi neolitiche, asce, coltelli, lance e ovviamente archi e frecce. Un delirio di saette mortali (nelle scene spettacolari che evocano il combattimento) e di corpo a corpo, non nascondo che lo studio dei backstage dei film di Nils Gaup, Howard Hill e di Kevin Costner mi è stato di molto aiuto.

I tempi di Otzi, la rivoluzione culturale


A corollario della sceneggiatura sta la forte tematica della rivoluzione culturale neolitica, i cui effetti sono più che attuali all’epoca di Otzi. Il passaggio tra l’uomo cacciatore e raccoglitore verso la cultura dell’allevamento e dell’agricoltura genera un incremento della violenza tra umani estremamente evidente; cinque – sei mila anni fa l’uomo inizia a combattere per la sua proprietà e il cacciatore, abituato all’uso delle sue armi, diventa guerriero. Nasce (e questo viene confermato dall’improvvisa quantità di testimonianze di massacri e violenza che nelle epoche precedenti non ha riscontro) la proprietà privata, l’ordine sociale, la gerarchia e di conseguenza l’invidia, l’avidità e la disperazione. Insomma, nasce la “civiltà” moderna. E’ molto semplicistico, forse demagogico, bollare un fenomeno così importante con questa semplice frase. In effetti il cambiamento c’è stato, dovuto alla crescita demografica (grazie ad una ricchezza alimentare organizzata) e alla stabilizzazione degli insediamenti che iniziano a connotarsi come villaggi difesi, fortificazioni e quindi baluardi verso un potenziale aggressore. Prima di tutto ciò l’uomo viveva sicuramente con un maggior equilibrio tra sé e la natura, era nomade e flessibilmente integrato con i cambiamenti climatici e i movimenti della selvaggina. Un po’ come gli Indiani d’America prima dell’arrivo dell’uomo bianco, che rifiutavano il concetto della proprietà della Terra e della selvaggina. Ma l’impossibilità per una scienza nuova come l’archeologia di fornire indicazioni assolute oggi deve far procedere con estrema cautela ogni indagine e congettura, per evitare semplificazioni ideologiche.
Il documentario ha voluto sottolineare comunque questo dramma, come il preludio alla nascita di una umanità che – non dimentichiamo – ha permesso lo sviluppo del progresso.
Parlando della tematica principale, le scene dell’ipotesi della morte di Otzi successive all’inseguimento sono state molto interessanti. La teoria del “lizard tail gambit” che spiegherò oltre è stata ben ricreata, come pure quelle del combattimento corpo a corpo con il coltello (sostituito solo negli affondi in primo piano con una riproduzione di plastica tenera) mi ha fatto tremare, non per la sorte della mia lama di selce ma per la magnifica noncuranza professionale con cui questi attori se lo sventolavano davanti alla faccia balzando tra una roccia e l’altra!

Le teorie sulla sua morte

Il documentario ha voluto raccogliere e ricostruire le possibili circostanze dell’uccisione. Molti dubbi e perplessità, quindi, ma una grande quantità di stimoli da far meditare. Di cose veramente certe ce ne sono pochissime, ed è difficilissimo non perdersi nella fantasia.
La ferita alla spalla di Otzi potrebbe essere tale da legittimare l’ipotesi del colpo mortale, anche se sono ben noti casi in cui persone colpite da proiettile lento sopravvivano a lungo. Un esempio a tema è l’Uomo di Kennewick ritrovato in Nord America, datato 9200 anni, con una punta di lancia conficcata nel bacino ma circondata da tessuto osseo rigenerativo, oppure la donna di 11000 anni fa della Grotta di S.Teodoro, in Sicilia, con tracce di proiettile litico (probabilmente una cuspide di freccia) colpita nel fianco e comunque sopravissuta alla ferita per lungo tempo. Anche in questo caso il callo osseo lo testimonia. La mia esperienza di caccia con attrezzature preistoriche, e quelle dei bowhunters con i quali sono in contatto, può essere utile… ma fino ad un certo punto (non ho un vissuto specifico di battaglie tra umani…e su questo fronte fortunatamente la bibliografia è scarsa). L’impressione che ricevo dalla ferita e dalla penetrazione della freccia, paragonata a simili situazioni sui selvatici è comunque che la ferita potesse essere o divenire mortale, anche se i tempi e le circostanze oggi conosciute non sono in grado di favorire un verdetto sicuro. Nel nostro caso i dati sono questi: la freccia ha penetrato i tessuti del giaccone e la spalla, ha sfondato la scapola e si è fermata a pochissimi centimetri dal polmone. Probabilmente (e questo si potrà accertare con l’estrazione della punta) la cuspide ha reciso tendini e una vena o un’arteria, e ciò può solo significare la paralisi del braccio sinistro e una morte progressiva per infezione batterica o rapida per emorragia. Sicuramente la ferita è stata dolorosissima, ha provocato un forte dissanguamento e un indebolimento progressivo. Ritengo molto difficile che Otzi sia riuscito a spezzarsi l’asta da solo, vista la posizione, e soprattutto la dolorosità estrema della ferita. Il fatto che non sia stata trovata alcuna asta spezzata nelle vicinanze potrebbe significare o una caduta durante la sua fuga (non oso pensare al dolore conseguente) e ad una conseguente perdita dell’asta in altro luogo, oppure dare origine ad una interpretazione meccanica dell’auto estrazione diversa: se la freccia che ha colpito Otzi fosse stata composita, con un foreshaft distale simile a quella ritrovata in faretra, il distacco dell’asta sarebbe potuto essere possibile con una minor sofferenza; oppure i concitati movimenti della fuga potrebbero averne provocato il distacco automatico, come spesso avviene in caccia con il selvatico. Il motivo di costruire aste dotate di foreshaft è proprio quello di favorire il recupero dell’asta, lasciando la punta e il piccolo stadio distale all’interno dei tessuti. Fare un’asta diritta e impennarla è molto più difficile e lungo (quindi antieconomico) che costruire la cuspide e armarla con un foreshaft. Da qui la necessità di recuperare l’asta impennata. Se l’autopsia e l’analisi dei tessuti rimossi rileverà tracce di legno diverso connesso alla cuspide (generalmente il foreshaft è fatto con un legno più duro di quello usato per l’asta) o addirittura di corniolo come l’asta a due stadi completa rinvenuta in faretra, potremmo avere indizi in più, che potrebbero suggerire come l’asta diversa della faretra sia uno degli strali indirizzati ad Otzi e che lui ha recuperato durante la sua fuga per poterlo riutilizzare poi.

Prima della scoperta della cuspide nella spalla, le ipotesi sulla sua morte vertevano su tre diverse teorie: la più “scomunicata” oggi è quella che vedeva il nostro affaticato dalla lunga salita della Tisental addormentarsi spossato e venir colto da una improvvisa e pesante nevicata. Una morte per perdita progressiva dei sensi e successivo assideramento. L’altra recitava una fuga precipitosa dal villaggio e da un’aggressione (per via delle armi ritrovate non finite e per le supposte fratture alle costole destre della prima radiografia austriaca); oggi parzialmente risulta rivalutata. Il primo studioso che si cimentò con il mistero di Otzi, Konrad Spindler, la propose nelle sue pubblicazioni scientifiche e venne divulgata nel libro “l’uomo dei ghiacci” pubblicato nel 1993. Il professor Spindler, ipotizzando un combattimento o comunque una colluttazione, anche se si basava su dati errati o incompleti senza saperlo, intuì qualcosa di molto prossimo alla verità.
Altri (soprattutto Johan Reinhard, esperto di mummie sudamericane) ipotizzarono un “sacrificio rituale”, per giustificare il fatto che al nostro uomo dei ghiacci, evidentemente un personaggio di spicco della sua comunità, non venne trafugato nulla, soprattutto la preziosa ascia di rame. Oggi, alla luce della scoperta (e di quella successiva della ferita alla mano destra interpretabile come ferita da coltello litico per via del suo profilo irregolare) la morte violenta da combattimento appare la più probabile. Resta da interpretarne la circostanza. Volendo riassumere le possibilità più significative, la prima è quella di una ferita di caccia accidentale. Un tiro malaccorto, e un occultamento del cadavere da parte del compagno di caccia reo di assassinio colposo . Ovviamente esso non poteva portarsi a casa le cose di Otzi.
A me pare debole (alla luce della perfezione del tiro e delle altre ferite sul corpo) ma comunque non potremo mai escluderla.
La seconda ipotizza una ferita accidentale: buona parte delle illazioni degli otziologisti d’oltre oceano riguardano la possibilità che Otzi sia stato ferito accidentalmente da una sua freccia. Una sua caduta, mentre estraeva la freccia, oppure la freccia che trapassa la faretra e di conseguenza la schiena del malcapitato. Da arciere e cacciatore, mi sembra assolutamente fantasioso che una freccia “accidentale” possa trapassare la spessa pelliccia del giaccone, sfondare la scapola e penetrare in profondità attraverso i muscoli della spalla, soprattutto trovandosi nella posizione così come è stata rilevata. Fantasioso, anche se forse virtualmente possibile. L’esperienza insegna come una freccia da caccia moderna (e quelle con la cuspide di selce non sono certo da meno) possa essere pericolosa se maldestramente maneggiata. Un volo da un appostamento sull’albero (le cadute dal tree-stand sono le cause più comuni di incidenti di caccia in Usa) con la freccia incoccata nell’arco può senz’altro essere pericolosa, ma ipotizzare uno scenario simile per l’uomo dei Ghiacci mi sembra decisamente azzardato, sarebbe per le sue caratteristiche riscontrate il primo caso del genere.
L’interpretazione dell’auto-ferita fa acqua da tutte le parti. Prima di tutto perché, come abbiamo riportato precedentemente, chi ha analizzato il corpo di Otzi ha scoperto altre ferite da offesa, e gli elementi scientifici che hanno esaminate sono assolutamente coerenti (e gli scienziati forensi conoscono bene il loro mestiere). Via via che l’ipotesi da morte violenta è divenuta sempre più realistica, Egarter ha scoperto ferite varie sul corpo che rafforzano l’idea di un combattimento ravvicinato. Il profondo taglio sul palmo della mano destra e altre contusioni (inizialmente non evidenziate o attribuite ai danni del post scongelamento e al trasporto) classicamente sono definibili come ferite da punta e da taglio “autodifensive” contro armi affilate.
Le successive interpretazioni prevedono comunque situazioni violente: la fuga precipitosa dal villaggio assalito da nemici o predoni, l’inseguimento, il ferimento e la morte in una posizione nascosta (e quindi il ritrovamento del corredo non predato) oppure l’omicidio da parte di un altro pastore che vuole impossessarsi del gregge di Otzi. Il nostro ferito gravemente fugge, si nasconde (e quindi l’ascia non viene rubata) ma muore per le ferite e per il repentino abbassamento della temperatura.
Una variante, significativa, descrive uno scenario abbastanza articolato ed è affascinante: “lizard tail gambit”, così come viene chiamata dagli otziologisti Usa capeggiati da Petr Jandacek, è la teoria che vede il nostro assalito da un cattivo che vuole rubargli la preziosa ascia in rame, viene da lui ferito nel combattimento corpo a corpo, viene inseguito e successivamente colpito dalla freccia, ma ancora in grado di resistere fugge e pianifica una strategia difensiva. Molto simile alla strategia scacchistica (il gambitto della coda di lucertola, in cui dei pedoni vengono sacrificati per migliorare la difesa e il contrattacco) egli dissemina alcune sue cose nelle vicinanze, arco, faretra, zaino e la preziosa ascia come esca. Tiene con sé solo il coltello e il contenitore di betulla con i carboni caldi e si nasconde coperto dalla neve, magari lasciando libero un piccolo spiraglio visuale. L’aggressore però non lo trova e sopraggiunge il maltempo. Otzi si addormenta e indebolito dalle ferite muore nel torpore, congelandosi.
Credo che la fantasia e la creatività possano suggerire infinite varianti al dramma dell’Ötzaler Alp. Sarà impossibile stabilire le vere circostanze. L’unica cosa certa (o perlomeno non esistono altre evidenze che possano far supporre il contrario) sulla quale si sta ovviamente lavorando, è la sua ferita di freccia; e su quella, analiticamente e scientificamente si può speculare. (VB)

Le frecce della faretra di Otzi


Otzi con sé portava una faretra con quattordici frecce, dodici aste abbozzate di Viburnum Lantana con solo l’incisione per la cuspide, e due complete, ma rotte. Una è interamente di Viburno, l’altra è composita, con un’estremità distale di corniolo su cui è armata la cuspide. C’è chi dice che l’aggiunta di tale prolungamento sia servito a riciclare un’asta precedentemente rotta negli ultimi 10 cm. Piuttosto io credo testimoni la tecnica per creare un missile a due stadi, come è ben noto in etnografia, per i motivi citati prima. Queste due hanno un altro elemento che le differenzia: l’impennaggio elicoidale, assicurato all’asta con resina di betulla e rinforzato con un avvolgimento di pelo di pecora, in una si presenta destrogiro, l’altra levogiro. Questo ha fatto supporre Arm Paulsen (il primo ricostruttore dell’attrezzatura arcieristica di Otzi) che fossero prodotte da due persone diverse, una destra e l’altra mancina. Apparentemente la cosa non fa una grinza. Poi un giorno ho dato uno sguardo alle mie frecce che uso a caccia, alcune fatte molto tempo fa delle quali non avevo chiaro ricordo, e ho trovato la stessa cosa. In una vecchia faretra di pelle di caprone c’erano insieme frecce impennate con legatura a spirale destra, altre sinistra. Morale: è assolutamente indifferente nel processo di legatura l’avvitamento della spirale, dipende solo da dove si vuol partire ad avvolgere, se dalla cocca oppure dall’estremità opposta. La medesima cosa me l’ ha confermata Oscar Gonzalez, sicuramente più esperto di me in fatto di repliche di frecce preistoriche. Comunque sia ciò non toglie che le due frecce potrebbero essere frutto di due mani diverse.
Le cuspidi in oggetto, quelle ritrovate armate nelle frecce della faretra, sono parte di due aste rotte in più punti. Da un esame attento le rotture non mi sembrano frutto di una caduta (le altre aste non impennate né armate risultano integre, e sono la maggioranza) ma piuttosto suggeriscono essere frecce “recuperate” più volte (l’analisi delle tracce di sangue presenti fino a 50 cm dalla punta lo conferma), poi tirate infine contro un bersaglio mancato, quindi rotte e su cui lavorare per riciclarne elementi preziosi. Potrebbero essere frecce che hanno mancato il nostro in fuga e prontamente da lui recuperate per essere riutilizzate (Otzi aveva solo materiale non terminato, ma recava con sé tutti gli utensili necessari alla ricostruzione e assemblaggio).


La cuspide assassina

Della freccia assassina non rimane altro (per adesso) che la piccola cuspide di selce, rilevata dalla radiografia del prof. Gostner a Bolzano e ricostruita dapprima virtualmente dalla tomografia successiva in tre dimensioni. Naturalmente i raggi x passano indisturbati il materiale organico, per cui non è oggi possibile sapere se e quanto materiale organico sia connesso alla cuspide. Dall’immagine della mia ricostruzione potete notare come essa sia veramente misera: 2,1 cm di lunghezza per 1,7 di base.
Dimenticavo: le relazioni interpretabili dalla stupefacente quantità di accessori arcieristici di Otzi fanno supporre che fosse di cultura sud-alpina, perché le cuspidi che armano le due sole frecce integre in faretra (ammesso siano sue e non raccolte durante la fuga) sono appartenenti all’insieme culturale del versante sud delle alpi, non quindi cuspidi nord tirolesi, quindi.
Peraltro, anche la cuspide nella spalla, anche se più corta, è della medesima tipologia. Pare che gli antichi austriaci (delle Culture di Cham e di Altheim) prediligessero cuspidi a base piatta o leggermente concava, senza peduncolo centrale. Esse, nelle testimonianze archeologiche, sono la stragrande maggioranza. Questa caratteristica, di puro significato culturale e non funzionale, differenzia e permette di classificare l’incidente cruento di Otzi come frutto di un combattimento tra genti del versante sud delle alpi. D’altro canto, le indagini sui residui di cibo ingerito da Otzi hanno permesso con ragionevole sicurezza di definire il percorso da lui compiuto, che cominciò dall’inizio della valle Venosta e che proseguì in direzione del dell’attuale Lago artificiale di Vernago, poi lungo la Tisental (valle di Tisa) fino al Giogo di Tisa, il “killing site” sullo spartiacque tra la Punta di Finale e l’Hauslabjoch, che segnano il confine tra il versante nord e sud della montagna dell’Otzaler Alp.
Questo ci può dire con buone probabilità che gli assalitori di Otzi facessero parte di un gruppo culturale “protoitalico”. Se le frecce in faretra completate, cioè armate con le cuspidi, fossero di proprietà del nostro, anche lui con molte probabilità potrebbe essere della medesima etnia.
Detto questo, il dubbio sulla piccola cuspide rimane. E qui vi riassumo le mie incertezze.
Il mio obiettivo oggi è elaborare un modello predittivo che possa aiutare ad interpretare il corredo balistico (e da esso tutte le conseguenze che si possono immaginare) di chi ha colpito il Nostro, definire gli standard per la sperimentazione, effettuarla, e attendere i dati che potranno emergere dopo l’autopsia della mummia per arrivare ad un risultato realistico di comparazione.

Il fatto certo è che la cuspide è veramente poverina. Ma ha penetrato comunque 50 mm. di tessuto e ha sfondato la scapola sinistra. E poi non sappiamo ancora se nell’impatto ha attraversato altri tessuti o materiale, e i danni comunque ne ha fatti. la “cuspidina” è veramente molto piccola, il suo peso prossimo ai 2 grammi, simile in dimensioni e peso, ad esempio, a certe cuspidi del Mali e del Niger dello stesso periodo (vedi foto a lato) e di quelle nordafricane.
Le cuspidi nordafricane sono caratteristiche di un aspetto culturale specifico con archi e metodologie di caccia sostanzialmente diverse a quelle dei cacciatori alpini, questo testimoniato dall’omogeneità dei reperti, dagli studi paleoambientali che testimoniano la scarsità di essenze tali da consentire la costruzione di archi forti, le pitture rupestri, ecc.
Il neolitico africano è letteralmente omogeneo e sotto quest’aspetto la casistica delle sue cuspidi porrebbe comunque le dimensioni di quella della spalla di Otzi tra quelle di maggior grandezza.
Gli africani del nord del neolitico avevano archi deboli, praticavano le cacce di gruppo alla grossa selvaggina, e i loro abbattimenti erano basati probabilmente su molte frecce che colpivano la preda e la indebolivano progressivamente.
Da qui il dubbio: Arco forte e freccia da “ultima chance” o arco da femminucce, la “teoria dell’amante arrabbiata”??


La prima, scartando l’ipotesi culturale africana, è che tale cuspide sia frutto di un ritocco correttivo per permettere il suo riutilizzo, evidentemente eseguito a cuspide immanicata. In altre parole, che la cuspide faccia parte di un corredo arcieristico simile a quello di Otzi e che l’apparato propulsore sia comunque “prestante”. Quando parlo di un corredo prestante intendo un insieme arco-freccia tale da consentire la caccia in solitario e l’abbattimento selettivo di ungulati; un corredo quindi consono alle esigenze di un cacciatore singolo (o tutt’al più che caccia assieme a pochi altri compagni) che consenta tiri a distanza medio bassa e che favorisca al massimo quei fattori lesivi che portino ad un recupero ergonomico del selvatico di grosse dimensioni. Fin qui non c’è una grinza: io non mi sognerei mai di andare a caccia di grossa selvaggina con un arco meno forte di 25 kg e con delle frecce più leggere di quelle trovate nella faretra di Otzi.
Perché ultima chance? Sono state trovate in contesti anche più antichi testimonianze di come, in situazioni di emergenza, il cacciatore “svuotasse” la sua faretra contro il bersaglio. Se come ogni buon cacciatore che si rispetti, in spalla porta numerose frecce e tra esse anche quelle dedicate alla piccola selvaggina, in un momento estremo, dopo aver tirato le sue frecce migliori…svuota la faretra anche con quelle di diversa vocazione. In Danimarca, presso il lago di Vig, venne trovata una bellissima costola di uro (bos primigenius) mesolitico con una punta di freccia trapezoidale (il classico tranciante trasverso, un trapezio con il lato maggiore che corrisponde al profilo di impatto) conficcata dentro. E’ facile immaginare come quel povero bisonte, già ferito da altre frecce, in procinto di defungere come un toro pieno di banderillas, abbia ricevuto anche questa freccia in più, anche se non destinata a lui “in teoria”. Il cacciatore ha sicuramente tirato a lui tutto il tirabile (avrei fatto così anch’io, con un bisonte ferito e arrabbiatissimo in mezzo all’acqua) non preoccupandosi della “forma” pensando che male allo scopo (!!) non avrebbe fatto. Dipende dal punto di vista…
Pensare che la cuspide sia frutto di un “recupero” post uso precedente deriva dal fatto che la sua dimensione di base è molto prossima ad altre più lunghe, coeve. Cuspidi “nuove” a pianta inscrivibile in un quadrato (mi riferisco all’area “viva”, cioè senza peduncolo) mi risulta siano praticamente inesistenti in contesti di sepoltura, ove abbondano quelle a superficie triangolare isoscele (larghezza di base <>


Bibliografia generale:
Konrad Spindler, L’uomo dei Ghiacci, traduzione di Giuseppe Cospito, Milano, Nuova Pratiche Editrice 1998
Raffaele de Marinis, Giuseppe Brillante, Otzi, l’uomo venuto dal ghiaccio, Marsilio Editore, 1998
specifica: Franco Rollo et al, Otzi Last Meals: DNA, Analysis of the intestinal Content of the Neolithic Glacier Mummy from The Alps in “Proceedings of the National Academy of Sciences USA”, 99, n.20, pp 12594-12599, 1 ottobre 2002
Autori Vari, la mummia dell’età del rame. Nuove ricerche sull’uomo venuto dal ghiaccio, atti del convegno internazionale, museo archeologico dell’alto adige, bolzano, 1999
Paul Gostner, Eduard Egarter Vigl, insight: report of radiological forensic findings on the iceman, in “journal of archaeological science”, 29, n.3, pp. 323-326, marzo 2002
James H. Dickson, Klaus Oeggl, Linda L.Handley, il ritorno di Otzi, Le Scienze n.418 giugno 2003, pp.66-77 Oberhuber W., Knapp R., 1997, The bow of the Tyrolean Iceman: a dendrocronological investigation by computed tomography. In S. Bortenschlager e K. Oeggl (a cura di): The Man in the Ice, vol. 4, pp. 63-67





La caccia con l’arco in Italia

La legge cornice 968/77 individua l’arco come strumento legittimo per la caccia. Il parlamento, in quel lontano anno, prese una decisione all’avanguardia che mise in linea l’Italia con pochissimi altri paesi del mondo. La storia di quella vicenda è particolare: a Giusy Pesenti, allora presidente del poligono di Bergamo, si presentò l’occasione di interloquire con l’onorevole Andreotti, e lo convinse a presentare la proposta per la legittimazione delle cacce “minori”, arco e falco. E fu l’allora presidente del consiglio a firmare nella nascente legge quadro tale riconoscimento, che passò “inosservato” in una calda sessione parlamentare dell’agosto del ‘77. E Giusy Pesenti, a tutto diritto, da allora è considerato “padre” della caccia con l’arco italiana.
Da quel momento l’interesse per la caccia con l’arco nel nostro paese si è accresciuto, pur rimanendo comunque attività di nicchia. Se oggi si può contare su un potenziale di qualche migliaia di cacciatori, che praticano o che “occhieggiano” alla disciplina, nel ‘77 il cacciatore con l’arco era praticamente inesistente, tranne a quei pochissimi appassionati (come Giusy Pesenti) che l’avevano conosciuta negli Stati Uniti e che la praticavano all’estero. Tra parentesi, il Pesenti l’aveva avvicinata tramite uno dei padri indiscussi della caccia con l’arco moderna, quel Fred Bear che rappresentò negli anni ’60 il modello per tanti cacciatori americani, e che rappresenta ancora oggi un simbolo valido, sia da un punto di vista morale che filosofico, in tutto il mondo.
L’America conta milioni di cacciatori con l’arco, con regolamentazioni specifiche e calendari che aprono anticipatamente rispetto all’arma da fuoco. È un paese con una cultura venatoria diversa dal nostro, sotto molti punti di vista, come pure gli habitat e la fauna che risultano molto più prossimi a quella filosofia della wilderness che si legge sui libri di Conrad e Thoreau. Solo duecento anni fa nelle praterie si cacciava il bisonte con l’arco, e cento anni fa nelle foreste dell’ovest i nativi cacciavano ancora il cervo coda bianca appostandosi a venti metri con l’arco e le frecce nascosti dalla vegetazione. I trapper che esploravano la frontiera avevano molto più in comune con gli indiani che non con la cultura europea da dove provenivano, grazie ad un meccanismo di mimesi e adattamento all’immanenza dell’ambiente selvaggio nel quale si muovevano. È naturale quindi che questo retaggio tutto sommato recente abbia fatto presa, con la pressione romantica e funzionale di un mondo ancora in scala 2 a 1 rispetto al vecchio continente. Negli anni ’30 già gli stati americani legalizzavano la caccia con l’arco.
Dalle nostre parti si parla una lingua venatoria frutto di una cultura differente e composita, in parte antica fatta di tradizioni in cui la caccia rappresenta privilegio dei ricchi e dei nobili, in parte moderna evolutasi per necessità dopo i depauperamenti bellici, e in parte contemporanea viziata dal compromesso politico economico dell’equazione caccia-sport-business. Dagli anni ottanta ha fatto capolino anche una visione alternativa, grazie al dilagare di una certa comunicazione; i sogni di quella generazione cresciuta e alimentata da film, libri e riviste d’avventura outdoor d’oltreoceano hanno fatto germogliare la voglia concreta di “selvaggio nostrano”, tra le cui forme simboliche ben si identificano l’arco e le frecce in un contesto di caccia arcaica. Oggi molto giovani cacciatori si rivolgono all’arco e le frecce, come pure molti appassionati d’arco, spinti da una curiosità (a volte profonda pulsione) alla ricerca di risposte articolate sul rapporto con la Natura nei confronti della propria natura, risposte difficili, forse impossibili, ma molto intriganti.

Etica
Cacciare con l’arco non è solo un modo diverso di rapportarsi con il selvatico. L'arciere nel buio del bosco non è solo una romantica immagine. Più lo strumento di caccia è primitivo più ci si costringe al contatto ravvicinato. Chi caccia con l'arco oggi sa benissimo che non caccia per sopravvivere, sa che la sua arma è primitiva e che ha dei grossi limiti tecnici e che il ferimento del selvatico è l'Assoluto da Evitare, e quindi paradossalmente preferisce non azzardare un tiro piuttosto che rischiare un ferimento. Eticamente ha quindi come obiettivo l'avvicinamento estremo (che significa la penetrazione dell'area d'allerta, quella vera, quella protetta da sensi del selvatico i cui recettori non sono codificati nei manuali d'anatomia) e il più delle volte rinuncia all'atto conclusivo (uccidere) per farsi una risata alla faccia della sua goffaggine. Non mi spiego il perché effettivo di questo forte condizionamento. Forse il cacciare con uno strumento primitivo è un richiamo a cui risponde solo un particolare individuo, parzialmente libero dal principio edonistico e consumistico, quindi automaticamente e interiormente rispettoso di certe leggi non scritte che hanno accompagnato l’umanità ai suoi primordi. Non credo proprio che ciò dipenda dall’economia del sistema balistico (le frecce sono preziose e molto spesso auto-costruite con amore, una per una); certo è che questa convinzione radicata l’ho ritrovata in tutti i cacciatori con l’arco, e soprattutto in tutti quelli che si sono rivolti all’arco dopo altre esperienze. Una sorta di umiltà indotta dalla limitazione auto imposta, che dà un maggiore valore all’atto, un “sentirsi” più vicini ad un modello ancestrale di uomo che non c’è più, un fatto fisico che in potenza sconfina con la ritualità.


La letalità della freccia
il vero Cacciatore con l'Arco è un Cacciatore particolarmente sensibile, responsabile e soprattutto preparato. La sua specializzazione è obbligatoria, sia perché pratica una forma di caccia già di per sé stessa autoselezionante (la conoscenza del territorio, dell’ Etologia e Biologia animale e la capacità di gestirsi nelle forme di caccia che prevedono un avvicinamento estremo alla preda) sia perché l’efficacia del mezzo che usa è totalmente vincolata alla sua conoscenza e senso di responsabilità.
L’efficacia dell’arco come mezzo di caccia alla grossa selvaggina è indubbia, fermo restando che vengano rispettati i concetti su esposti. Ed è un tipo di efficacia legato a fattori balistici diversi da quelli dell’arma da fuoco. Mentre una palla sparata da una carabina possiede una velocità tale da poter causare l’arresto o l’immobilizzazione della preda (indipendentemente dal potere lesivo) per via dell’energia cinetica, la freccia dotata di lame (che raggiunge mediamente velocità dieci volte inferiori alla palla) è in grado “solamente” di provocare lesioni mortali per via dell’emorragia conseguente. In termini balistici, possiede alto killing power (potere lesivo) ma basso o nullo stopping power (potere d’arresto) soprattutto con la grossa selvaggina. Ecco perché la tecnica venatoria in sé deve essere adeguata per poter condurre la caccia responsabile ai grossi mammiferi. In un ungulato medio (dalle dimensioni del capriolo a quelle del cervo) l’area vitale in cui colpire (vista da una posizione laterale con l’asse di mira ortogonale all’asse del corpo) varia da 15 a 40 cm di raggio. In tale area e con tale orientamento troviamo polmoni, fegato, cuore. Una emorragia prodotta in questa zona è sempre rapida e mortale. Il ferimento da proiettile primitivo è causa sempre di emorragia. La qualità (intesa come “efficacia”) della ferita conseguente all’emorragia è funzione del numero di vasi coinvolti (attraversati e lacerati dal proiettile) e del drenaggio della ferita, Il tempo che intercorre tra l’impatto e la morte del selvatico varia in funzione di questo parametro e dell’azione di disturbo causata dal cacciatore che ha inferto il colpo. In altre parole, se il colpo è ben indirizzato in area vitale e se non viene generato alcun disturbo susseguente, intercorrono da trenta minuti a sessanta minuti perché l’emorragia compia il suo effetto. Statisticamente, su selvaggina di peso di 70/150 Kg, il percorso compiuto dal momento dell’impatto a quello terminale non supera i 100 metri, generalmente compiuto in discesa e verso corsi d’acqua quando presenti nelle vicinanze.
E’ opportuno distinguere tra ferite che provocano grandi emorragie e quelle che inficiano la funzionalità immediata degli organi vitali. Paradossalmente, un cuore attraversato completamente da una freccia può continuare a svolgere la sua funzione per un tempo intuitivamente troppo grande e se il selvatico è perturbato dal cacciatore che lo spaventa, consentirgli di correre per centinaia di metri. Fondamentale è quindi l’immobilità e il silenzio, che per almeno un’ora devono seguire il colpo a segno.
La caratteristica migliore di un colpo è sempre da ricercarsi nella quantità di sangue drenata dalle ferite, non dalla precisa mira al singolo organo vitale. Nello stesso tempo, il miglior tipo di ferita con altissimo killing power e in grado di frenare la fuga o l’allontanamento del selvatico rimane quella ai polmoni. Con entrambi i polmoni attraversati da un colpo si genera un doppio collasso pneumotoracico e l’animale (se non pressato da inseguitori) si immobilizza pochi minuti, a volte secondi, dopo l’impatto perché il sangue non si ossigena più . Le ferite al cuore, al fegato, sono sempre mortali, e in funzione dei vasi sanguigni recisi si ha un sicuro abbattimento. Generalmente un selvatico deve versare circa 1/3 (35%) del suo totale peso di sangue in circolazione per perdere conoscenza e morire. Il sistema circolatorio di un mammifero funziona sulla base di una percentuale approssimativamente pari a 56 grammi di sangue per kg di peso corporeo (Badsworth, 1975). Di conseguenza, ad un cervo da cento kg basta un’emorragia pari a 980 grammi di sangue. E’ critico quindi il fattore “velocità” . Più velocemente procede l’emorragia, meno percorso il selvatico compie dal momento dell’impatto. Il proiettile primitivo nella sua penetrazione produce anche un piccolo effetto collaterale di shock nei tessuti immediatamente circostanti il taglio. Ad un’analisi accurata (Stinger, 1986) appaiono rotture di piccoli vasi sanguigni in un raggio di 15 cm. dalla ferita principale che possono essere interpretate solo come shock da impatto. Tale shock produce l’effetto di “intorpidire” l’area e “narcotizzare” l’effetto della penetrazione. La medesima considerazione proviene dall’analisi chimica dei tessuti muscolari attraversati dal proiettile lento in cui non vi è associazione con adrenalina e bassa quantità di endorfina, caratteristica questa sempre riscontrabile ingigantita nelle ferite da arma da fuoco.
Questo ragionamento vale per proiettili sempre dotati di bordo estremamente tagliente, profilo a cuspide e con caratteristiche cinetiche tali da possedere quantità di moto nel range considerato .
Da studi pubblicati (Brooke, Stinger,1981) appare come la soglia del dolore negli animali selvatici sia estremamente più alta che negli umani. Generalizzando, maggiore è la taglia del selvatico, piu’ in alto essa si sposta e maggiori capacità di recupero si manifestano in essi. Maggiore è la “pulizia” della ferita (il proiettile affilatissimo) e migliore è la localizzazione del colpo, meno facilmente viene raggiunta questa soglia del dolore. Esempi innumerevoli di selvatici di grosse dimensioni trapassati da una freccia che continuano a brucare (e che crollano dopo qualche minuto per l’emorragia) confermano come la concezione umana del dolore sia un parametro assolutamente non idoneo per valutare tale aspetto. Una ferita da taglio che corrisponde alla nostra descrizione e che non colpisce organi vitali può tranquillamente non rivelarsi mortale per via della bassissima percentuale di danneggiamento dei tessuti circostanti, con l’unica eccezione delle ferite addominali, che provocano quasi sempre la morte per setticemia (anche se essa può avvenire giorni dopo il colpo). Comunque sia, la fisiologia del dolore si riflette sempre nell’umano in base alla natura della ferita, come dire che l’effetto “psicologico” di un taglio anche se superficiale ha manifestazioni e reazioni “non proporzionali” alla reale intensità e gravità del danno. Non si deve quindi valutare la problematica del ferimento sotto questo aspetto “antropizzato” …ed è sbagliato umanizzare gli animali. Gli animali consciamente non possono avere il timore della morte, finché nessuno è in grado di dimostrare il contrario.
La configurazione neurologica del dolore osservabile sia tra gli animali domestici che quelli selvatici non è misurabile se non in termini clinici. Fisiologicamente, le terminazioni nervose che percepiscono il dolore sono localizzate sulla superficie dell’epidermide e nelle ossa. Gli organi interni vitali (cuore, fegato, polmoni e viscere) hanno pochissime se non alcune di esse, come quelle responsabili delle nausee.

La selvaggina
La caccia d’elezione per l’arco è quella alla grossa selvaggina, perlomeno è quella più…decantata. In America (a parte la difficilissima disciplina della caccia al tacchino selvatico) con l’arco si cacciano normalmente Cervi della Virginia, Cervi Mulo, Capre selvatiche, Bighorn (una versione superdotata del nostro Muflone) Orsi bruni e Elk. In alcuni stati del nord america e Canada anche Alci e Caribou, come pure Orsi Grizzly. Sono cacce in solitario, da appostamento elevato (tree stand hunting) oppure precedute dall’avvistamento e dal lentissimo avvicinamento (stalking). In Italia, dove è permesso, il cinghiale è cacciabile in varie forme (anche nella tradizionale battuta) e ha dimostrato la sua efficacia senza alcuna discussione. In riserve private, l’arco ha dimostrato la sua efficacia anche sul Muflone e sul Cervo rosso. Ma bisogna affermare che anche le cacce alla piccola selvaggina, in compagnia del cane, possono essere una ottima opportunità. La caccia con il cane e l’arco è pratica preistorica e antichissima (come documentato dalle pitture rupestri del neolitico franco cantabrico e nelle raffigurazioni egizie) e, pur con le ovvie difficoltà (richiede maestria nel colpire la preda in movimento) è di grandissime soddisfazioni. Nel meridione d’Italia oggi sta avendo un buon seguito.

Le possibilità
La legislazione permette l’uso dell’arco in caccia, ma non ne specifica alcuna regolamentazione. Regioni e Province possono proibire l’uso dell’arco o finalizzarlo a determinate specie, e così, a macchia di leopardo, fanno. In tutti questi anni nulla è stato fatto concretamente per delineare un quadro preciso dei requisiti e della preparazione specifica che il cacciatore con l’arco deve dimostrare per poter esercitare (o sostenere) i suoi diritti. In altre parole, considerando il fatto significativo che l’arco e la freccia non vengono classificate come armi (dalla legislazione vigente) chiunque, in possesso della licenza di caccia, può recarsi in armeria o in un negozio di articoli sportivi, acquistare un arco e andarvi a caccia.
Alla luce delle sue peculiarità tecniche e delle rigide norme etiche a cui deve essere accompagnata, la caccia con l’arco necessita quindi di una decisa preparazione e sensibilizzazione preliminare. Sia che ad essa si rivolga un cacciatore tradizionale, sia che (ed a maggior ragione) vi si avvicini un arciere. È per questo motivo che nel 1990 nacque l’Eredità Perduta, una associazione che facendo base operativa fissa a Todi, nella riserva di Agrincontri, iniziò un programma di educazione alla caccia con l’arco. L’associazione, pur non potendo contare su un numero di associati significativo, da quel momento intraprese contatti ufficiali con gli organi politico-istituzionali per sensibilizzare al problema. Nel 1995 ottenne il riconoscimento ufficiale della National Bowhunter Education Foundation (NBEF) , un organismo internazionale con sede in America posto a tutela della caccia con l’arco, e iniziarono dal ’96 i corsi riconosciuti a livello internazionale IBEP (International Bowhunter Education Program). Questi corsi, della durata di 14 ore, sono modulati su argomenti tecnici ed etici, si insiste molto sulla preparazione alla sicurezza e sull’etica venatoria. In USA buona parte degli stati prevedono questa abilitazione alla caccia con l’arco, come pure molti stati sudafricani e in questi ultimi tempi, anche europei, che su quel sistema didattico hanno fatto modello ufficiale (l’ultimo caso è l’Ungheria).
Recentemente l’Eredità Perduta ha strutturato su tre aree geografiche la sua azione; al Nord la sede è a Bologna (dove è nata) , al centro è Roma e al sud è Salerno. Ed è proprio da questa ultima area che nascono le maggiori speranze e stanno giungendo le soddisfazioni: l’assessorato alla caccia della Provincia di Salerno, come pure le associazioni venatorie, stanno collaborando in modo molto intenso per definire standard sperimentali sia a livello normativo che pratico. Un primo passo che, se ben mirato, potrà divenire oggetto di studio e stimolo per altre aree. E’ infatti in progetto, con la partecipazione della Provincia e di alcuni Comuni del territorio del Vallo di Diano, la costituzione di una scuola per le discipline venatorie in cui introdurre in modo sistematico la didattica dei corsi erogati dalla Associazione per dotarli di un riconoscimento ufficiale.
La caccia con l’arco è sistema di prelievo a basso impatto ambientale: mai come le zone limitrofe ai parchi (ed i parchi stessi) possono trarre beneficio da essa, se ben regolamentata e strutturata. Sono in corso azioni specifiche per sondare la possibilità di creare cacciatori abilitati alla caccia di selezione con l’arco, congiuntamente ad un programma che prevede la creazione di operatori specializzati nella gestione degli ungulati (nel caso specifico il cinghiale). La nostra associazione ha preparato un progetto ad ampio respiro che potrà essere operativo a breve.
La cosa che meraviglia di più, alla luce di due convegni organizzati sul territorio, corsi formativi e momenti di incontro, è la straordinaria risposta dei cacciatori tradizionali. Le stesse associazioni venatorie hanno dimostrato una sensibilità particolare nel sostenere questa proposta. La caccia con l’arco potrà forse divenire un “modello” di gestione, o comunque un sistema per collegare le componenti tecniche di gestione ad una domanda sempre più intensa di coinvolgimento tra l’uomo e il territorio attraverso la caccia.

Vittorio Brizzi


Bibliografia utile:

Brizzi – Zani, Il Libro del cacciatore con l’arco, Greentime editori Spa, Bologna 2003
Brizzi, A caccia con l’arco, Planetario edizioni, Bologna 1993
Badsworth, Stinger, - NBEF Educational Papers , 1975
Brooke, Stinger- NBEF Educational Papers, 1981

La sperimentazione più difficile che c’è…


Ricostruire una freccia preistorica, un arco medievale, una cuspide in selce è archeologia sperimentale. Ma stiamo attenti: cosa differenzia un appassionato re-enactement da un lavoro scientifico? O meglio, quale è le linea di confine che separa la confusione dal tentativo di far tesoro del nostro passato?


Nell’archeologia la sperimentazione è difficilissima. Le scienze fisiche sperimentali tout court hanno protocolli scolpiti nel granito, percorsi che tutto sommato risultano più semplificati. La variabile comportamentale umana gioca un ruolo talmente preponderante nell’analisi sperimentale archeologica che a confronto leptoni, quark e onde gravitazionali sono soggetti …malleabili da un punto di vista “sperimentale”. Purtroppo questa variabile comportamentale sfugge da qualsiasi possibilità di indagine conoscitiva seria.

Il sottoscritto proviene da un background di ricerca universitaria nel campo delle scienze fisiche, precisamente si è occupato di osservazione astronomica e speculazioni nel campo della cosmologia. Oggi si collabora con archeologi preistorici partecipando con le sue mani a “esperimenti” tesi a ricostruire catene operative sepolte nella notte dei tempi e a ricostruire scenari “predittivi” basati sulla correlazione dei dati acquisiti sul campo con inferenze comportamentali fondate sul sistema - ambiente. La ricerca operativa sulla scheggiatura litica, e sulla Caccia preistorica come attributo comportamentale da indagare (che è quello che più mi interessa) mi ha portato ad applicare concetti sperimentali ad attività dimenticate, e mi ha reso partecipe ad uno sforzo considerevole, tentando di individuare standard e protocolli che avessero un valore pratico di studio attraverso la sperimentazione.
L’indagine sulle nostre origini è un sottomistero molto particolare di quello immanente della nascita dell’universo, e con esso, dal punto di vista speculativo, ha un legame indissolubile. L’astrofisico non potrà mai costruire una stella in laboratorio e sottoporla ad esperimenti, come pure l’archeologo non potrà padroneggiare completamente i fenomeni di studio per via dell’enorme quantità di variabili in gioco, impossibilitato ad “assistere in diretta al fenomeno” che cerca di spiegare.
Nella cosmologia e nell’archeologia, non è sempre possibile applicare rigorosamente il metodo scientifico empirico, galileiano , o sperimentale dir si voglia… comunque lo si deve considerare come “principio ispiratore” per qualsiasi indagine convergente alla realizzazione di un “modello”, e quindi mai andare in contrasto con esso. Questo per una qualità di lavoro e di linguaggio comune che fissa dei punti di riferimento solidi, gli unici che permettono progressi nelle scienze.

Schematicamente
(*) il metodo sperimentale si articola in cinque fasi:

l’osservazione (la "sensata esperienza" di Galileo)
la descrizione del fenomeno
la formulazione di un’ipotesi che si riferisce alle osservazioni (che Galileo chiama "Assioma")
l’esperimento che dovrebbe convalidare o confutare l’ipotesi (il "cimento sperimentale")
la tesi, legge che esprime i risultati ottenuti.

Nella prima fase l’osservatore coglie gli aspetti salienti del fenomeno che permettono di descriverlo schematizzandolo. Ovviamente non e' possibile descrivere qualsiasi processo senza riferirsi all’intuito, all’esperienza e alla sensibilità dello sperimentatore. Nel caso dell’Archeologia, il fenomeno osservabile è costituito dai resti archeologici e dal maggior numero di dati relativi al contesto.
La seconda fase consiste generalmente nel formulare una legge (in fisica classica il linguaggio è la matematica) che si accordi il più possibile con le osservazioni sperimentali.Il passaggio dalla prima alla seconda fase e' un'inferenza induttiva, per cui da un’insieme di osservazioni particolari si giunge ad una affermazione generale.
Il passo successivo e' quello che consiste nel ricavare il maggior numero di conseguenze, e perciò di previsioni, a partire dalle ipotesi. Le previsioni sono modelli funzionali che, in Archeologia, devono contemplare la variabile comportamentale umana.
Questa fase, che consiste in una inferenza deduttiva, si avvale del supporto della matematica. Lo sforzo di deduzione si accompagna anche a quello di sistemazione.
La quarta fase e' quella della verifica sperimentale, in quanto si accetta il principio che, se una legge fisica e' vera, tutte le conseguenze che da essa si possono dedurre matematicamente devono essere confermate dall’esperienza entro i limiti dell’incertezza delle misure. L’esperienza sperimentale, in Archeologia, è la ricostruzione e l’uso del manufatto.

Il presupposto che sottende la fase dell’esperimento e' che questo, se ripetuto nelle stesse condizioni, fornirà gli stessi risultati. Ciò permette di confrontare i risultati in laboratori diversi, di ripetere quante volte si vuole l’esperimento per migliorare la precisione dei risultati.
I percorsi di indagine corretti alla sperimentazione in Archeologia possono quindi essere molteplici, perché ispirati da diverse discipline. Tutte queste vie interdisciplinari devono comunque intersecarsi e ovviamente convergere verso l’unico obiettivo di chiarire la visione e comprensione delle possibili verità. Verità al plurale, perché mai come in archeologia la Vera Verità non potrà mai definirsi certa ed unica. Quindi si devono raccogliere dati, soprattutto si deve imparare a estrarli e gestirli nel modo corretto e nel rispetto delle metodologie d’indagine delle scienze, e si deve ragionare sempre in termini di probabilità e ipotesi.
La storia della sperimentazione in archeologia, soprattutto qui in Italia, è breve, forse neanche è appropriato parlare di storia ma ad una sua più lecita leggenda. Dal mondo accademico è da poco che se ne sente parlare – non sottovoce.
Si è assistito in passato alla sperimentazione di qualche archeologo che, intuendo giustamente in questo una via d’indagine interessante si improvvisava lui stesso vasaio, vetraio, fabbro, scheggiatore, pescatore, cacciatore… deducendo dalle sue esperienze dirette, spesso maldestre, indicazioni comunque “pubblicabili” per via della loro indubbia originalità; questa piccola presunzione ha reso purtroppo un cattivo servizio al progredire delle conoscenze sulla cultura materiale preistorica e quello delle scienze comportamentali umane antiche, per via di alcune conclusioni affrettate, discutibili, ma comunque divenute famose e prese come assunto.
Nello stesso tempo, la grande quantità di volenterosi che si sono autoeletti “archeologi sperimentali” creando associazioni e gruppi di lavoro, a volte animati da uno spirito ingenuo, a volte per pecularci sopra, ha sì diffuso l’interesse per la materia in sé per via della sua spettacolarità ma ha generato enorme confusione, inflazionando il messaggio e creando una cacofonia semantica senza pari, soprattutto tra i mezzi di comunicazione e nel mondo della scuola. Il mondo accademico, naturalmente ha rifiutato questa archeologia dilettantistica, purtroppo eradicando per un lungo periodo (perlomeno qui in Italia) ogni prospettiva seria di sperimentazione scientifica.
Da un altro, chi oggi tra gli archeologi ha raccolto intelligentemente contributi multidisciplinari trasversali da tecnici, artigiani e “specializzati” è riuscito a compiere grandi progressi sull’analisi e interpretazione funzionale dei reperti relati ai contesti culturali specifici.
I personaggi specializzati a cui mi riferisco sono quelli il cui background culturale è l’esperienza maturata in anni di applicazione e le cui caratteristiche “comportamentali” sono comunque basate sulla pragmaticità, cioè il “raggiungere lo scopo” con a disposizione mezzi limitati da una deliberata rinuncia alla tecnologia moderna.
Naturalmente ciò è avvenuto quando il lavoro di equipe tra ricercatori e sperimentatori ha funzionato: quando i tecnici hanno messo a disposizione le loro capacità agli scienziati e quando gli scienziati hanno deciso di stimolare al problem solving questi tecnici specializzati, soprattutto ascoltando le loro osservazioni.
Da qui si può facilmente desumere come l’Archeologo Sperimentale sia da vedersi una figura collettiva, un team, non un solo individuo. L’indagine di scienza e la compenetrazione del problema pragmatico devono andare assolutamente insieme nella stessa direzione. Sperimentare significa rispettare l’empirismo e osservare scrupolosamente degli standard, rispettare un protocollo replicabile ovunque e da chiunque ne abbia le capacità, permettendogli di confutare o confermare le conclusioni. Essere padroni delle condizioni di laboratorio, dei dati e delle procedure significa saper dare un giusto peso ad essi e saper scindere le variabili importanti da quelle trascurabili, e comunque registrare e elaborare sempre con precisione ogni processo e ogni tracciato operativo. Ciò per poter permettere ad altri ricercatori di aggiungere tasselli nel mosaico delle verità indagabili.
Nell’archeologia la cosa è difficilissima. Le scienze fisiche sperimentali tout court hanno protocolli scolpiti nel granito, percorsi che tutto sommato risultano più semplificati. La variabile comportamentale umana gioca un ruolo talmente preponderante nell’analisi sperimentale archeologica che a confronto leptoni, quark e onde gravitazionali sono soggetti …malleabili da un punto di vista “sperimentale”. Purtroppo questa variabile comportamentale sfugge da qualsiasi possibilità di indagine conoscitiva seria.
Ecco perché la sperimentazione in archeologia ha necessità di mezzi, strutture, teste pensanti formate in anni di studi accademici, sia scientifici che umanistici, e soprattutto mediazione e buon senso, intuizione e a volte anche un pizzico di “trasgressione creativa”.
Ha bisogno anche della mano e del cervello di chi sa non solo replicare i manufatti, ma di colui che si pone come obiettivo l’uso di essi in contesti il più possibile simili a quelli desunti dalle ricerche archeologiche e dall’analisi scientifica dei dati. Nessuna delle due parti può fare a meno dell’altra.
Oggi finalmente sembra che le cose possano imboccare una strada interessante. La sensibilità del mondo accademico si è maturata, offrendo la possibilità di un apporto trasversale e multidisciplinare alla ricerca da parte di tecnici maturati, consapevoli finalmente dell’importanza di chi ha “mani” per creare ed usare.
Nel campo dell’arcieria molto è stato fatto, nel tentativo forse ingenuo di nobilitare arco e frecce ad un ruolo non solo ludico-sportivo. E qui mi sento in prima linea: da quando nacque Arco e mi venne l’impegno di lavorarci sopra, partì la stretta collaborazione con la Society of Archers Antiquaries (grazie all’impegno di Stefano Benini e oggi di Jill Victoria Brazier) e si è pubblicato e letto di Storia e Scienza, sono nati “centri di interesse” molto forti, sono nati scambi di opinione non solo locali e si è assistito ad un progressivo incalzare di quesiti e dibattiti. È nato l’arco storico come disciplina sportiva ( …e con tutte le sue incongruenze) ma soprattutto in quasi quindici anni si è posta la premessa per far comprendere l’importanza in termini di indagine sul nostro passato a chi, accademicamente, ha sempre e solo considerato le punte di freccia tutt’al più come indicatori cronotipologici e culturali, senza approfondirne direttamente il ruolo con l’antropologia, l’etnologia e con l’analisi dei comportamenti umani. L’arco e le frecce sono sempre state ai margini degli interessi d’indagine degli studiosi, un po’ per la scarsità dei reperti e un po’ per l’approssimazione delle conoscenze, che spesso ignoravano la sua complessità e la relegavano al rango di un qualsiasi altro “utensile” di legno. Solo dopo l’Uomo dei Ghiacci qualcosa si è mosso, vista la straordinaria complessità e completezza del corredo (ben lungi dall’essere spiegato esaurientemente tutt’oggi) in cui le componenti arcieristiche fanno la parte del leone.
Da parte di studiosi seri si è deciso di indagare più a fondo. Per mezzo di collaborazioni insospettabili si è giunti a dei risultati scientifici. Insomma, si è usciti timidamente dal pozzo.
Lo studio delle punte di freccia (molto più in america per le Culture paleoindiane) è sempre stato tanto seguito. Esistono migliaia di pubblicazioni scientifiche che, dal 1800, ne studiano la forma, la cosiddetta tipologia, le dimensioni, ma solo ed esclusivamente da un punto di vista: quello di identificare la forma come attributo culturale e quindi indicatore temporale in rapporto al sito scavato.
Se viene trovato uno scheletro con punte di freccia intorno, la punta serve a datare la sepoltura. Né più e né meno come la forma di un vaso di argilla. Tra tutte quelle pubblicazioni (vi assicuro, migliaia) solo qualche decina parla (o tenta di parlare) del rapporto forma-funzione; cioè di quel rapporto che cerca di interpretare l’uso e la destinazione di un simile indicatore balistico. Che andassero a caccia o in guerra è sicuro, ma ciò diventa un aspetto …secondario. Capire come una punta di freccia possa differenziare un attitudine comportamentale (relativamente al contesto in cui essa viene rinvenuta) diventa un meccanismo di indagine che può portare ad altre inferenze deduttive importanti, come l’organizzazione sociale, economica e i rapporti di rango tra i componenti della collettività. Comprendere come e perché un arco fatto in un certo modo rappresenti un oggetto di prestigio diventa un indicatore economico e di ruolo, ma comprendere questo è stato possibile solo grazie alla dimostrazione galileiana nella ricostruzione, cioè la difficoltà di realizzare un utensile simile che mette in evidenza non la complessità manuale - costruttiva bensì la consapevolezza del rapporto materiale – forma - funzione, la volontà di perseguire un obiettivo che va oltre l’apparenza. Solo facendo in questo modo si può ottenere uno strumento che “renda” per un determinato scopo, solo conoscendo dove si vuole giungere si può raggiungere quella maestria in grado di tener in considerazione certe variabili strutturali, ecc., cose che un bravo artigiano arcaio ben conosce.

Vittorio Brizzi

L’Arciere Mediterraneo

Le pagine di questo blog vogliono rivolgersi a tutti coloro che “sentono” l’arcieria in un modo diverso. O meglio, si sforzano di sintetizzare in modo semplice e concreto da un punto di vista filosofico, ma nello stesso tempo articolato in un graduale percorso esplorativo, un sistema di apprendimento del tiro con l’arco, e volutamente in una forma abbastanza provocatoria, invitano a metterlo in pratica.
L’Arciere mediterraneo vuole essere una vera e propria proposta di “formazione”, basata su documentazioni dell’Oriente e che indubbiamente hanno influenzato la nostra indocumentabile (o quasi) tradizione arcieristica mediterranea, in cui si tracciano linee guida ispirate ad una scienza antica estremamente efficace e pragmatica. In sintesi, come meglio vi apparirà leggendo e seguendo questa rubrica, vi troverete a contatto con esempi della didattica antica talmente “concreti”, familiari e costruttivi, che probabilmente vi domanderete come mai solo ora è emersa questa idea.

Noi ce lo siamo già chiesto. In realtà sono anni che si discute di questa possibilità: nasce inizialmente come diletto accademico, poi come sogno applicativo, dopo ancora diventa progetto e ambizioso desiderio di realizzarlo. E’ stata intrapresa un’operazione monumentale di decifrazione (qui non si può parlare solo di traduzione) di antichi trattati del medio oriente che si rivolgono ai docenti delle scuole di tiro (eh si…) agli allievi arcieri, agli ufficiali e strateghi, insomma all’utenza specializzata che, tramite la parola scritta, pone le basi di una “scuola di tiro”. Il tutto spalmato in diversi secoli e Culture, ma con elementi comuni e fili conduttori paralleli, ben tesi e vibranti. Inutile dire che studiando e discutendo i modelli didattici proposti da questi Maestri, stupisce la modernità (!) e la concreta applicabilità del metodo, che emerge dalla straordinaria cultura (psicologica, anatomica, medica, fisica, matematica, pedagogica e didattica) di cui sono portatori. Un meritato elogio alla Cultura del prossimo Oriente, mai come oggi fraintesa, una Cultura propria di un epoca in cui in occidente…non si andava così per il sottile.

Il lavoro di sintesi necessario, molto impegnativo, ci fornisce spunti diretti per una Scuola di arcieria assolutamente profonda, coerente ed interessante. Questi trattati (in occidente bisognerà attendere forse Ascham, ma noi che tipo di occidentali…siamo?) che spaziano dall’anno mille ai primi del sedicesimo secolo, espongono i fondamentali, le regole, le prassi, gli allenamenti, le condotte morali, specializzazioni, fino ad un esoterismo sottile ma insinuante, in cui i valori della dottrina vengono dichiarati parte integrante dell’allenamento e dell’apprendimento dell’arte.
Quale è la figura di arciere che ne emerge? Un uomo in grado di fronteggiare il nemico in svariate situazioni e capace di dominare la paura, “forte” e efficace, a fronte di un duro ma strutturato insegnamento “per gradi”. Un guerriero di spicco, con un ruolo specializzato, quotato e apprezzato diversamente dall’arciere medievale mitteleuropeo che, pur efficace e necessario nell’economia dei fatti bellici, sfuma nella letteratura come protagonista a fronte del “cavaliere” a cui tutto è dovuto.
Il modello di insegnamento, quindi, a fronte di un lavoro di ammodernamento (in termini comunicativi) necessario, diventa un sistema integrato basato sull’uomo e sul suo “miglioramento”, mai come oggi, riteniamo, necessario.

Lasciamo perdere preconcetti ideologici, ma basiamoci sui fatti: l’arco nasce come arma, e come tale ha delle prerogative che lo rendono “rivoluzionario” rispetto alle altre armi. Colpire a distanza, ovvio, è il suo punto forte. Ma farlo con potenza, precisione e abilità (che sarebbe la totale padronanza, leggi comunione del bersaglio con il proprio corpo oppure l’arco e la freccia che diventano parte della propria corporeità) diventano la missione da compiere nel suo insieme. Oggi, inutile dirlo, solo la precisione (e la parabola piatta) è il fine, che per essere raggiunto ha bisogno di droghe e illusioni tecnologiche.
I trattati insegnano varie scuole, ma nessuna si discosta dall’obiettivo sintetizzato dagli Arkan (i Pilastri) che sono le qualità base. Nessuna deve essere dimenticata, tutte coltivate con perseveranza. Il quadro di stupenda arcieristica naturalezza che emerge dalle righe di questi testi, quando descrive l’arciere che supera difficoltà e cimenti “non ponendosi” altro problema della fluidità nelle esecuzioni dei tiri e sulla qualità degli impatti, mettendo in pratica esercizi divertentissimi (!) comuni a certi giochetti che – sfido tutti a negarlo – abbiamo sicuramente compiuto in passato tra amici o nei roving di famiglia (magari poi vergognandocene, quasi la sindrome da Peter Pan fosse una fase ricorsiva della nostra malattia da guarire a suon di gare ufficiali e regolamenti “seri”) qui diventano la regola.

Non si tratta di “arcieria storica” come oggi la si intende né re-enactement ludico – culturale. Non si tratta di una “alternativa” sportiva o di una nuova disciplina marziale tout court. Non è neanche un approccio accademico. È tutte queste cose insieme, per un certo verso, ma anche qualcosa di talmente vecchio (antico) che brilla per la sua modernità ontologica. Sembra paradossale, ma oggi tra tendenze, mode e atteggiamenti di parte, si fa un “gran danzare intorno” a concetti antichi (il tirare d’arco è un principe tra questi concetti) ma ci si limita, sovente, a viverli tramite aspetti marginali, spettacolari. Nella migliore delle ipotesi si fa un nuovo gioco, ma spesso con esso si perdono i collegamenti con la tradizione e con le radici.
Volendo spiegare meglio, il nostro sport è tale da poco più di due secoli, o meglio è celebrato come tale solo da quando il fine di “colpire un bersaglio” ha smesso di essere un’esigenza contingente, di vita e morte, verso i propri simili o verso la selvaggina. Uno sport che, evolvendosi, ha perso il controllo sul soggetto ed il processo (l’individuo e sul suo miglioramento) per spostarsi verso l’oggetto (l’attrezzo) come elemento principale, enfatizzando una performance autoreferenziale che non ha più nulla che vedere con la base motivazionale che ha spinto l’uomo ad inventarsi un sistema efficiente per colpire a distanza.

Eppure dovremmo mostrargli più rispetto, a quell’arciere. Già la sua nascita rappresenta un elemento simbolico in sé, intorno a quella non ben precisa finestra temporale che vede l’abbandono delle pratiche di sussistenza basate sulla caccia-e-raccolta per quelle di allevamento e sfruttamento intensivo del suolo. Ha i suoi albori nel paleolitico superiore come raffinatissimo ed innovativo processo di venazione per diventare via via perfezionato sistema per combattere i propri simili, a cavallo della rivoluzione neolitica che rappresenta la prima sconvolgente e radicale trasformazione della società degli umani. L’uomo perde, da quel momento e sempre in maggiore misura, il contatto con la sua radice selvaggia, naturale. La freccia ne è protagonista e testimone, strumento di accompagnamento e di accelerazione. Lungi dall’essere la sede adatta per discuterne il ruolo (in questa “rivoluzione”) ma elemento su cui meditare: l’arco e la freccia come fossero l’ultima reminescenza di una società diversa, forse scomoda, ma sicuramente più integrata con le basi originarie.
Elemento fortemente simbolico, quindi, senza nulla togliere al fatto che quindicimila anni (come minimo) sono ben di più potenti di qualche secolo, anche se le decine d’anni recenti ne hanno viste, veramente, di cotte e di crude.

Che significa “Arcieria Mediterranea”?

Sebbene l’arco sia stato patrimonio di tutte le culture e di tutti i gruppi umani dal paleolitico in avanti in ogni angolo del globo, le sue sedimentazioni storiche e le sue tracce più consistenti le ritroviamo nelle grandi civiltà del Vicino, Medio ed Estremo Oriente (Bizantini, Persiani,Turchi, Cinesi, Indù; ma ancor prima Egizi, Assiri, Sciti ecc.). Queste raffinate civiltà - accomunate dall’uso dell’arco di tipo composito (corno, legno tendine), che costituiva un’arma micidiale - produssero nel corso dei secoli di quello che noi chiamiamo Medio Evo, una vasta letteratura sulle tecniche di uso e addestramento al tiro con l’arco,
L’unificazione del Medio Oriente sotto le bandiere dell’Islam e il conseguente prevalere della lingua araba quale momento unificatore dei popoli conquistati, favorì il fiorire di una vasta letteratura di tipo tecnico-scientifico, che come in molti altri campi del sapere umano, interessò anche le arti militari e in particolare in tiro con l’arco. Inoltre, gli Arabi seppero raccogliere e trasformare in teoria scritta anche le secolari esperienze pratiche, ma non codificate, dei popoli delle steppe asiatiche, soprattutto per quanto concernente il tiro da cavallo.
Furono così tradotti o redatti in arabo numerosi trattati riguardanti le tecniche di tiro e di addestramento, trattati rivolti soprattutto agli arcieri degli eserciti arabi (in particolare i Mamelucchi), i quali, a differenza degli arcieri occidentali dello stesso periodo, erano alfabetizzati e, quindi, in grado di leggere e studiare tali trattati. Questi testi stupiscono per la loro ricchezza di dati, conoscenze, informazioni sul modo di concepire il tiro con l’arco, sulle tecniche di allenamento e di addestramento e sulle concezioni filosofico–religiose ad esso legate. Tale “civiltà dell’arco” si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, trovando terreno fertile nelle regioni che già erano state od erano sotto l’influenza dei Bizantini ( i “romani” del mediterraneo medievale) , toccando anche le nostre sponde, in particolare nell’Italia Meridionale, ma anche nei territori che erano stati già dell’Esarcato bizantino (Ravenna) o di quelle che più risentiranno dell’influenza ottomana (Venezia).
Ci rserviamo di trattare questi temi in sedi più appropriate, quali ad esempio Arcosophia (sulla quale Giovanni Amatuccio cominciato a pubblicare una sorta di storia dell’arcieria Islamica a puntate) in questa sede, invece, ci preme maggiormente addentrare in un terreno più “politico”, nel senso di partecipazione ad un dibattito ormai in corso da tempo sulle radici dell’arciera tradizionale.

Da questi miei studi, infatti, emergono elementi in grado di rappresentare un contributo spero positivo al dibattito in corso sul concetto del cosiddetto tiro istintivo o tradizionale.
Un primo dato che emerge con forza è che quello che oggi viene definito “tiro istintivo” non è certo un’invenzione moderna, opera di Fread Bear o Howard Hill. In tutti i trattati dell’antichità il concetto che emergeva con forza era che l’arciere per ritenersi tale doveva essere in grado di tirare con precisione, con forza, velocemente e in movimento (suo e/o del bersaglio). Questi erano i “pilastri” (in arabo, arkan) del tiro con l’arco e gli stessi concetti si ritrovano nei manuali bizantini, indù, cinesi. Queste abilità nel loro insieme facevano l’arciere completo. Certo, tali abilità si rifacevano all’arciere militare o cacciatore, ma è da dire che anche le attività puramente ludiche conservavano queste caratteristiche, probabilmente perché in ultima analisi, anche le gare erano una forma di addestramento. E’ evidente che per coltivare l’insieme di queste caratteristiche non si poteva non essere “istintivi” cioè tirare con forza, precisione e velocità allo stesso momento. A caccia o in battaglia non c’era il tempo per mirini o falsi scopi.
Le cose cominciano a cambiare in occidente, quando nel XIX secolo, si assisté ad un revival dell’arcieria defunta ormai da qualche secolo come attività bellica. Quando l’arco cessò di essere un arma da guerra e da caccia fu trasformato in un attrezzo “sportivo” nell’accezione tipicamente anglosassone del termine. L’Inglese Horace Ford il primo grande arciere sportivo, elaborò tecniche e teorie che demolivano definitivamente il concetto del tiro da guerra e da caccia. A lui e ai suoi compagni non interessava più usare un arma, ma semplicemente un attrezzo da divertimento: addio quindi alla forza, addio alla velocità di esecuzione, addio alla mobilità; l’unico fattore che veniva perseguito e sviluppato era quello della precisione. Da qui cominciò il cammino di quella che poi diventerà l’arciera olimpica moderna, con i cerchi, i mirini e tutte le attrezzature atte ad esaltare il maggior grado di precisione possibile. Contro questo modo d’intendere il tiro con l’arco si levò, a metà del secolo scorso, in America ,un nuovo movimento che tendeva a riportare l’arcieria alle sue caratteristiche primitive. Le gesta di Hill, Bear e compagni entusiasmarono anche gli Europei e nacquero esperienze quale quella della Fiarc; e , in nome della pratica venatoria , concetti quali forza, velocità e mobilità ritornavano a far parte del bagaglio tecnico dell’arciere.
Alla lunga, però, l’esasperazione agonistica legata allo sviluppo sempre più vorticoso di nuove tecnologie, sta facendo riemergere , anche all’interno di coloro che avevano fondato la loro ragione d’essere sui suddetti principi, le vecchie obiezioni di Ford, che parafrasate al moderno, suonerebbero grosso modo così: “L’arco non è più un’arma. A che serve la forza della freccia? A che serve la mobilità? In fondo l’unica cosa che conta è fare centro, non importa come e con che mezzi.” In questo modo si torna a rivalutare l’unico parametro della precisione a discapito delle altre. Addio, arciere completo!

La nostra idea, invece, è quella di ridare solide basi ai principi tradizionali del tiro con l’arco. Fondare una pratica di tiro che abbia come scopo la rinascita di queste consuetudini secolari; con un’operazione meritoria verso una tradizione così antica che, paradossalmente, è andata perduta da tempo in quasi tutte le regioni del lontano e vicino Oriente (se si esclude casi quali il Giappone, dove la tradizione è stata salvata solo a costo di un inquadramento in rigidi precetti e forme).

Da ciò emergono tre principi fondanti di tale processo di ricostruzione storico-antropologico-ludico-marziale, sui quali fondare una rinascita delle ricordate tradizioni, che sfugga alle false diatribe e contrapposizioni: mira o collimazione, istinto o ragione, primitivismo o tecnologismo.

1. Rivalutazione dei quattro “pilastri” del tiro con l’arco: precisione, forza, velocità, mobilità; riproponendo la figura di un arciere moderno in grado di padroneggiare e di cimentarsi nell’insieme di tali abilità.

2. Scelta di privilegiare il miglioramento dell’uomo rispetto a quello dell’attrezzatura.

3. Privilegiare l’aspetto della formazione, del percorso, della “via”, rispetto a quello della prestazione, del risultato a tutti i costi,

Il primo punto significa innanzitutto rivalutare il concetto di simulazione, venatoria e perché no bellica, nel quale si adottino forme di allenamento e di competizione basate su sistemi di valutazione di tutte e quattro le abilità, insieme e separatamente.
Il secondo, significa adottare attrezzature quanto più semplici possibili, consci del fatto che solo azzerando il parametro dell’attrezzatura, si possa far emergere e tenere sotto costante controllo il parametro umano.
Con il terzo punto s’intende definire un modo di intendere la pratica arcieristica più vicino alle arti marziali che all’esasperata pratica agonistica degli altri sport moderni. Insomma, una “via dell’arco mediterranea”, basata sulla ricerca del miglioramento psico-fisico di chi la pratica, nella quale ci sia spazio anche per il momento agonistico, ma come verifica del percorso compiuto e non come fatto fine a se stesso.

Vittorio Brizzi
Giovanni Amatuccio